Un caso clamoroso, ben noto alle generazioni del dopoguerra, ha ispirato Il signore delle formiche, film diretto da Gianni Amelio. La pellicola, presentata alla 79° mostra del cinema di Venezia, porta sullo schermo un atto d’accusa contro il perbenismo che annulla i diritti della persona. La storia si ispira alla vicenda di Aldo Braibanti, che divise il Paese negli anni 60, e racconta il dramma di un intellettuale antifascista e partigiano omosessuale, condannato per plagio grazie a una legge poco applicata ma utile al fascismo per colpire “i diversi”. Solo nel 1981 la norma dell’art. 603 del codice penale fascista, fino ad allora in vigore, fu finalmente dichiarata incostituzionale dalla Consulta. E già questo ci dice quanto sia stato e sia duro a morire il “fascismo eterno” descritto così bene da Umberto Eco, che come un fiume carsico scorre nel profondo del Paese per uscire in superfice alla prima occasione.

La storia riveste una puntuale attualità. In effetti, benché i pregiudizi diffusi e le ipocrisie legislative sull’orientamento sessuale siano stati in parte affievoliti dall’ammodernamento del costume, l’omofobia persiste ancora in Italia, generando tuttora violenze e discriminazioni. Né si possono ignorare le persecuzioni ancora vigenti in molti Paesi del mondo.

I fatti sono ambientati in una comunità paesana della campagna piacentina, chiusa e tradizionale. Aldo, il protagonista (interpretato da uno straordinario Luigi Lo Cascio), pensatore e poeta colto e anticonformista, è conosciuto più per il mostruoso processo subito che per le sue opere.

Formato anche dall’esperienza della Resistenza e anticipatore delle idee del 68, dirige il centro culturale La Torre e porta idee nuove di emancipazione tra i giovani. La passione verso la scienza lo porta anche allo studio della società delle formiche e della loro organizzazione. Coglie come spunti sociali la presenza di due stomaci degli insetti, uno per il singolo e un altro per la collettività della colonia.

Nell’ambiente arretrato della piccola comunità Braibanti però è bollato dai pettegolezzi. Diversi giovani frequentano con entusiasmo i laboratori d’arte e di teatro del centro. Fra loro Riccardo Tagliaferri (Davide Vecchi) attratto per primo dalle parole di Aldo, e il fratello Ettore (Leonardo Maltese). Tra quest’ultimo e il professore nasce una intesa immediata fatta di curiosità e sentimento. Che diverrà amore. Il maestro apprezza la voglia di vivere e di cambiare del giovane, imprigionata dalle restrizioni della madre bigotta.

Amelio non fa sconti a questa figura retrograda ma neppure al carattere di Aldo rigido e inflessibile, che può anche non piacere. Mette però in luce anche la tensione ideale del filosofo, verso la bellezza e la consonanza, libera da ogni prigionia.

Ettore, appena maggiorenne e osteggiato dal fratello, forse invidioso del suo rapporto con Braibanti, lascia la famiglia, la cui atmosfera è divenuta insopportabile. Raggiunge Aldo in una pensione a Roma, ma la madre, convinta che l’amore “diverso” del figlio sia una malattia, ne organizza il rapimento e l’internamento in manicomio. Per “guarire”, il ragazzo dovrà subirà il martirio forzato dell’elettroshock. Aldo, accusato di plagio verrà arrestato. È il dicembre 1967.

Le due figure materne del film, contrapposte, ci danno la misura della condizione femminile sotto il peso del clericalismo imperante. Da un lato Maddalena, madre di Ettore (Anna Caterina Antonacci), è intenta a una fanatica caccia al peccato, dall’altro Susanna, madre di Aldo (Rita Bosello), rifiuta la condanna del figlio e cerca di capirlo. Quest’ultima, fiera e dignitosa durante il processo e di fronte alla condanna di Aldo a 9 anni di carcere, interpreta in silenzio il dubbio, la rivolta e la pietà. La donna, che nel film vediamo vestita di nero, è dalla parte del figlio e cammina a testa alta, con orgoglio.

La madre di Ettore invece, fa appello a padre Pio e alla Madonna, ma non esita a distruggere la salute mentale del figlio.

Un personaggio immaginario ma attendibile, Ennio Scribani, è il cronista del l’Unità interpretato da Elio Germano. Incaricato di seguire il caso e sempre più convinto dell’assurdità delle accuse, scrive un articolo vibrante e combattivo che suscita molti consensi. Non piace però al caporedattore (Giovanni Visentin), tutto calato nel moralismo di stampo stalinista, che alligna ancora nel Pci. Considera gli “invertiti”, come erano chiamati gli omosessuali, un tema pericoloso. L’episodio evidenzia la sordità che coinvolse in quegli anni perfino un giornale come il quotidiano comunista, in prima fila per i diritti. E Scribani non può continuare a scrivere, perderà il posto.

In tribunale si svolge la parte più incisiva e significativa di una narrazione che ha ritmi diversi. Agli interrogatori settari e concitati (tratti dagli atti) si oppone la tranquillità dell’imputato e di Ettore, testimone. I due si sentono innocenti, rivendicano il diritto alla privacy del loro rapporto, che non offende nessuno.

Il silenzio che Braibanti oppone all’inizio ai giudici, non deve stupire. La parola non serve. La colpa non esiste. Ed Ettore, benché prostrato dal trattamento psichiatrico, riesce a spiegare che la colpa non c’è, c’è la luce, la poesia che gli ha insegnato il maestro e grazie alla quale poi troverà nuova pace nell’arte.

Il regista Gianni Amelio

Amelio si avvale di ottimi attori. Lo Cascio interpreta bene la mitezza apparente di Braibanti, che è come una lama contro la visione oscurantista del mondo.

Il lucido attacco finale ai giudici (tutti intrisi ancora dalla formazione fascista) trasforma l’imputato in accusatore di tutto il sistema repressivo e della cappa di perbenismo che soffoca il Paese. Il giovane attore Maltese centra con indovinata naturalezza l’ingenuità e il turbamento di Ettore. Germano, di cui è nota la maestria nei più vari ruoli, simboleggia con il giornalista il coraggio di affrontare ogni rischio per la verità.

Il film di Amelio la dice tutta sull’intolleranza, è una occasione preziosa per riflettere sulla libertà, sempre in pericolo. È rivolto all’oggi, a tutti i pregiudizi, di genere, di etnia e di qualsiasi tipo ancora presenti. È un inno al valore di una visione laica della società e dei costumi. In una recente intervista, proprio parlando del suo Il Signore delle formiche il regista invita i giovani a rispettare l’essere umano. Ognuno deve dire a testa alta io sono. Anche omosessuali si è. E basta.

Serena D’Arbela, giornalista e scrittrice