Matteo Cavalleri
Matteo Cavalleri

«Se si chiede al politico che cosa il fascismo sia stato per lui, vi potrà dire che esso gli si configura […] come la dittatura di un uomo, credentesi e creduto (o, per lo meno, proclamato) infallibile, che appoggia la sua insana prassi politica a una torbida dottrina malamente combinatagli con i detriti inferiori delle più disparate filosofie – come il dominio di una fazione composta di uomini intellettualmente nulli, tecnicamente inesperti, che avanzano come supremo distintivo di merito, la rinuncia assoluta al pensare, la prona obbedienza al capo, la giovinezza degli anni e il fanatismo, e che, per tali virtù, si sentono senz’altro i depositari della verità, della moralità, dei supremi interessi della nazione, sicurissimi di sé, educatori destinati della gioventù, e possono colpire gli altri come gli ottenebrati, i reietti, i traditori».

 

Con queste parole – tratte dallo scritto Il Fascismo. La radice del suo errore e l’intima necessità del suo disfacimento – il giovane filosofo Alberto Caracciolo, dalle pagine clandestine del terzo quaderno de Il ribelle (1944), intonava la sua lucida analisi della fenomenologia del fascismo, inteso come fenomeno totalizzante che, a fronte di una violenta pochezza teorica, invadeva tutti gli ambiti dell’esistenza umana.

All’inizio degli anni sessanta, Theodor Adorno ricorreva proprio al fascismo per esemplificare il nesso inestricabile tra politica totalitaria e inconsistenza filosofica: «il fascismo nella sua forma prima e ancora meditata, quella italiana di Mussolini, ha unito la sua pretesa dittatoriale di assolutezza con un estremo relativismo filosofico, di osservanza nietzschiana o paretiana; e, in genere, proprio quando le cosiddette Weltanschauungen  sono proclamate con la pretesa della loro validità assoluta, ad esse si accompagna sempre l’ombra di questa arbitrarietà e questo relativismo».

Queste due diagnosi, seppur distanti tra loro per contingenza storica e per background intellettuale – ma unite dalla medesima radicale esigenza di pensare il proprio tempo con il rigore del concetto – tagliano il campo d’indagine che Umberto Eco affronta, per il cinquantesimo anniversario della Liberazione, con lo scritto Eternal Fascism: Fourteen Ways of Looking at a Blackshirt (“New York Review of Books”, 22 June 1995; pubblicato successivamente in italiano sulla “Rivista dei Libri” con il titolo Totalitarismo “fuzzy” e Ur-Fascismo e confluito infine nella raccolta italiana Cinque scritti morali come Il fascismo eterno).

Il problema teorico dal quale prende le mosse Eco è rappresentato dall’apparente paradosso che lega l’elevazione della categoria di fascismo a «sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi» alla sua confusione ideologico-filosofica: «il fascismo era un totalitarismo fuzzy. Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni». E proprio sulla gestione disinvolta e non critica della contraddizione – che caratterizza il culto della tradizione e la cultura sincretistica, camuffando un bisogno ideologico di dominio con presunte rivelazioni originarie – si fonda la virulenza del fascismo, la sua potenziale eternità e la sua violenza più profonda, radicale, direbbe Caracciolo con riferimento a Kant. Nella consapevolezza, con Alain Badiou, che non sia la pratica della memoria a renderci immuni dal ripetersi del passato, quanto il suo continuo pensiero: è l’impensato, infatti, che permane.

Il valore esemplare dello sforzo di Eco sta quindi proprio nel pensare le «caratteristiche tipiche» del fascismo – ovvero quelle la cui presenza, anche solo ridotta alla singolarità, è sufficiente «per far coagulare una nebulosa fascista» – nel tentativo di individuare le potenzialità stesse che rendono il fascismo «eterno». Pensare il fascismo come potenzialità eterna è l’unica opzione che abbiamo per salvarci dalla sua eternità storica. Questa è la sfida concettuale che Eco ci invita ad affrontare. Sfida che prende le mosse da una scelta dirimente: considerare il fascismo come una politica e un pensiero, non come una semplice e nuda barbarie. Questa seconda determinazione infatti ci esporrebbe ad un duplice, fatale, rischio: da un lato, quello di considerare il fascismo – e quindi il nazismo che, come puntualizza Caracciolo in uno scritto del 1965, «è il fascismo pensato e attuato nel rigore della sua logica» – come impensabile figura del Male e, quindi, fondamentalmente ingiudicabile e incondannabile. Dall’altro, quello di dispensarci dall’esame continuo della prossimità con la quale le nostre politiche – la nostra filosofia, disse con profetica e spietata lucidità Emmanuel Levinas nel saggio del 1934 Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme – dimorano accanto alle politiche fasciste: «L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. […] può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo», ammonisce Eco.

Così, proprio come Levinas distingueva la filosofia di Hitler, che è «rudimentale», da quella dell’hitlerismo, «che va ben oltre la filosofia degli hitleriani» e «pone in questione i principi stessi di una civiltà», il semiologo, nella sua disamina in quattordici punti, tratteggia la logica, seppur sfrangiata, che caratterizza e ritma il verificarsi di ipostasi fasciste. Disamina che è innervata da una tensione, retta dal riferimento costante – che apre e chiude lo scritto – alla coppia concettuale libertà/liberazione. Il percorso di Eco infatti prende le mosse da un ricordo personale: «Nel 1943 scopersi il significato della parola “libertà”. Racconterò questa storia alla fine del mio discorso. In questo momento “libertà” non significava ancora “liberazione”». E si chiude con il richiamo ad una convocazione costante: «libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai». Nel mezzo si dipana la disamina critica del reale della situazione – pratica di pensiero che si carichi della fatica della considerazione non contraddittoria della contraddittorietà della realtà storica e che si rimetta «veramente alla cosa e non al bisogno ideologico», direbbe Adorno – volta a ridare senso alle parole, tesa a rompere il cielo di carta della loro mistificazione e reificazione retorica, per far sì, proprio come nella lotta partigiana, che la libertà porti con sé la verità della liberazione, come ci ricorda l’Athos di Giorgio Caproni: «ogni qualvolta una cosa è detta essa diventa un’altra cosa; […] noi non dobbiamo combattere per la libertà che è detta ogni giorno da tutti e che ogni qualvolta è detta è un’altra cosa: ma per quella libertà che è al di là del confine di tutte le parole dette. Ciò che resta nei morti dopo che essi hanno esalato fino all’ultima tutte le parole nostre». Il discorso di Athos, e l’opera di Eco ce lo testimonia, si esprime in un discorso che arriva fino a noi, che ci interpella e geme in noi come una ferita, direbbe Vittorio Sereni, non nel rimando all’originarietà vacua di una tradizione, ma nella ruvidezza di un impegno da viversi nel qui e nell’ora: «Il discorso di Athos era infinito: anche per il senso era infinito; […] non passava più, nemmeno quando Athos taceva. Era penetrato in noi, accanto alle salme, come il gelo: ed era diventato un dubbio in noi, nel nostro petto proprio accanto alle salme al cui posto potevamo essere noi. Forse proprio per questo il discorso di Athos non poteva passare mai».

Matteo Cavalleri, dottore di ricerca in filosofia  e autore di La Resistenza al nazi-fascismo. Un’antropologia etica (Mimesis, 2015). Attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Bologna

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In questo link – http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/07/02/identikit-del-fascista.html – la seconda parte del discorso pronunciato da Umberto Eco il 24 aprile 1995, alla Columbia University di New York, nell’ambito delle celebrazioni per la Liberazione dell’Europa dal nazifascismo. La dizione “ur-fascismo” significa “fascismo eterno”.