Brescia. Piazza della Loggia, dopo la strage, maggio 1974. Archivio fotografico Anpi nazionale

Ce lo domandiamo ancora oggi a fronte del tempo trascorso (50 anni, e cioè mezzo secolo), del trapasso a miglior vita di tanti protagonisti, del ricambio generazionale, della perdita di memoria (è oggi diffusa opinione che si tratti di un atto criminale delle Brigate Rosse), della difficoltà, ancora esistente purtroppo, di accedere agli archivi dei servizi di “sicurezza” dello Stato. Eppure almeno una parte di Brescia ancora se lo domanda. Perché? La risposta fu ed è nella reazione esemplare della città nell’immediatezza dell’ignobile attentato. Fabbriche occupate, senza incidente alcuno, dai lavoratori; piazze gestite dal movimento sindacale (allora forte e unitario); grande consapevolezza della matrice politica dell’attentato da parte della cittadinanza, la quale partecipò con ferma compostezza e con grande partecipazione ai funerali pubblici delle vittime, e concorse con generosità a soccorrere e sostenere gli altri 100 feriti.

Roma. 29 maggio 1974. Sciopero generale contro la strage di Brescia. Archivio fotografico Anpi nazionale

Da una simile esemplare reazione non poteva che scaturire una ferma volontà di voler sapere chi fossero gli attentatori, e chi li avesse organizzati e armati. E questa ferrea volontà ha compiuto il miracolo di sostenere chi questa ricerca stava ancora coltivando, nonostante le diverse precedenti delusioni processuali (Processi Buzzi, Ferri, Ballan e Rognoni, tutti finiti in un nulla di fatto), il tempo trascorso che aveva cancellato memorie, disperso documenti e registrato il decesso di molti soggetti implicati, facendo in modo che si sia potuti pervenire all’accertamento della responsabilità, e alla conseguente condanna, di due gli organizzatori della strage.

Brescia, Piazza della Loggia pochi minuti dopo l’esplosione

Fu così che, a ben 41 anni di distanza dal fatto (era il mese di luglio del 2015), la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha condannato all’ergastolo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, in quanto promotori e organizzatori dell’orrendo crimine. Ma ciò non è bastato ad appagare la sete di conoscenza e delle responsabilità della Brescia democratica e antifascista (Medaglia d’Argento della Resistenza) che ha voluto e preteso si perseguissero anche i responsabili materiali, e cioè gli esecutori del vile gesto. E ciò perché ancora oggi si stanno celebrando nuovi processi per dare un nome a chi quella bomba portò materialmente in piazza Loggia, collocandola nel cestino per rifiuti nel quale scoppiò.

Milano, manifestazione per Piazza della Loggia

E così, sotto la instancabile spinta di una domanda ancora così viva nella coscienza civile della città, l’autorità giudiziaria ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di due di coloro che sono ritenuti responsabili di avere eseguito l’attentato. Si tratta di due ex militanti di estrema destra, assai attivi a quel tempo, nei cui confronti pendono indizi che si ritiene essere seri e pesanti.

Una foto storica grazie a cui decenni dopo è stato identificato uno dei due presunti esecutori materiali della strage, Marco Toffaloni, che all’epoca aveva 17 anni. L’altro presunto è Roberto Zorzi. Entrambi rinviati a giudizio in procedimenti che si apriranno l’uno il 30 maggio 2024, l’altro il 18 giugno

L’uno, Roberto Zorzi, emigrato negli Usa, fanatico religioso in senso tradizionalista (faceva parte di un gruppo denominato “Guerriglieri di Cristo Re”) avrebbe fomentato e riscaldato gli animi dei neofascisti veronesi e bresciani sostenendo la necessità di colpire i “rossi” con un atto “esemplare” violento. Il secondo, Marco Toffaloni, da tempo emigrato in Svizzera, allora minorenne, ritenuto identificato come presente in Piazza Loggia la mattina dell’attentato, e fotografato in quella sede, subito dopo l’esplosione. Entrambi, anche se non in una posizione di spicco, frequentatori dell’ambiente di Ordine Nero di Verona, nuova denominazione della precedentemente disciolta organizzazione politica, paramilitare, e portatrice di strategia stragista Ordine Nuovo, il cui centro operativo in alta Italia era proprio il Veneto.

Una scritta di Ordine Nuovo. Archivio fotografico Anpi

Dunque l’attentato viene organizzato dalla dirigenza di O.N. del Veneto e la bomba, è stato accertato giudizialmente, è stata portata a Verona da persona ben identificata, ma ormai deceduta. Si trattava di vedere chi potesse collocarla, escludendo gli esponenti più noti di O.N., allora sotto sorveglianza delle forze dell’ordine per una recente incursione squadristica a Brescia, a seguito della quale alcuni di essi erano stati arrestati. Evidentemente la scelta degli esecutori non poteva che ricadere su personaggi vicini all’organizzazione, ma di secondo piano.

Zorzi e Toffaloni (il primo, fanatico militante “di base”; il secondo, ragazzino sedicenne assai esaltato) erano le persone che sembravano le più adatte per non essere notati in quel di Brescia. E così lo scellerato cerchio si chiudeva. I capi avevano deciso di rilanciare la strategia stragista, i “manovali” potevano agire nel quasi anonimato, e in forza di bestiali propositi di vendetta contro gli antifascisti.

Corte d’Appello di Milano

Ma perché, a distanza di tanti anni qualcosa non ha funzionato in una macchinazione politica di respiro nazionale, e cioè la strategia delle stragi, gestita secondo i principi della “guerra rivoluzionaria” teorizzata nel convegno del 1965 presso l’Hotel “Parco dei Principi” a Roma, con l’approvazione benevolente dei comandi americani, con il patrocinio dei vertici militari e con il concorso operativo di noti nostalgici del regime fascista? Come mai, nonostante tale disegno rientrasse nelle strategie internazionali della Guerra fredda, e avesse il benevolo avallo dei comandi militari Nato (a Verona c’era il comando del nord Italia di tale organizzazione internazionale militare, frequentato dagli ordinovisti locali), si è potuto risalire ai responsabili, anche di secondo piano? E infine come si spiega il fatto che, nonostante le evidenti protezioni e coperture dei terroristi neri da parte dei servizi segreti emerse dopo i primi processi, le cui indagini si sono rivelate come deliberatamente deviate da parte dei servizi di sicurezza militari dello Stato, si è comunque potuto raccoglier qualche briciolo di verità o qualche fondato elemento di responsabilità?

La risposta sta in una premessa e in una conseguenza. La premessa, illustrata nella prima parte del presente scritto, sta nella caparbia consapevolezza e volontà della Brescia democratica e antifascista, e cioè della larga parte della cittadinanza bresciana, di sapere che si è trattato di un attentato per mano fascista, purtroppo coperto da importanti apparati della sicurezza dello Stato, civili e militari, e di volere la verità e i responsabili.

I pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni

La verità è emersa dopo anni e anni di studi, ricerche, indagini giornalistiche, di acquisizioni, non solo giudiziarie, che hanno corroborato quella consapevolezza. Le responsabilità sono state accertate, per quanto ancora possibile, sotto la spinta di quella consapevolezza che è stata di stimolo a un lungo, paziente e costante impegno di alcuni magistrati (i pm Piantoni e Di Martino) che hanno ricostruito le vicende che hanno condotto alla ideazione, progettazione e organizzazione dell’attentato. Un attentato, si badi bene, diretto contro il “nemico” politico, e cioè gli antifascisti. Ed è stato in questa circostanza tra coscienza antifascista ampiamente diffusa nella società civile bresciana e magistratura requirente che si è squarciato il velo dell’oblio, delle connivenze e coperture e si è pervenuti a individuare alcuni dei responsabili. Un contributo prezioso lo hanno dato anche alcuni avvocati, alcuni di essi anziani, ma in maggior parte giovani e agguerriti patrocinatori di parte civile, che con la loro provata professionalità hanno completato l’opera della pubblica accusa.

Manlio Milani, presidente della Casa della Memoria di Brescia

Ma il merito di tale sinergia va soprattutto alla Casa della Memoria di Brescia, presieduta da Manlio Milani, che ha sempre operato per mettere insieme la sete di giustizia della città con la giustizia delle aule di tribunale. E con questo spirito ci accingiamo oggi noi tutti a dare un ulteriore contributo alla conoscenza dei fatti, come dovuto risarcimento a una città ferita, ma mai piegata dalle trame di coloro che da lungo tempo hanno avversato lo Stato democratico e la sua Costituzione antifascista.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi e socio di Libertà e Giustizia, legale di parte civile nei processi celebrati per la strage, e autore con Saverio Ferrari del libro “Piazza della Loggia cinquant’anni dopo”