Benedetta Tobagi, raggiante per la vittoria del Campiello (Imagoeconomica, Canio Romaniello)

Sostiene di praticare l’ottimismo della volontà. Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, a distanza di giorni è ancora emozionata per la vittoria, inaspettata, dell’edizione 2023 del prestigioso premio Campiello con “La Resistenza delle donne”, pubblicato per i tipi dell’editore Einaudi. Il libro ora è stato ristampato ed è tornato in libreria dopo essere andato a ruba.

Se però ve la immaginate a riposo per godersi il trionfo, cambiate film. Tobagi si divide fra lavoro (scrive, tiene lezioni, fa ricerca, è collaboratrice di “Repubblica”), eventi culturali e soprattutto incontri nelle scuole e nelle sezioni Anpi. Ricevere “la vera da pozzo” è stata una sorpresa? «Giravano rumors su altri esiti, neppure l’editore Einaudi si aspettava la decisione. Il Campiello è l’unico premio letterario che si basa sul giudizio di una giuria di lettori anonimi, trecento, e che il secondo posto, a soli dieci punti di distanza, sia andato a Silvia Ballestra con la biografia di Joyce Lussu, una partigiana, credo sia un buon segnale in questo momento storico».

Il ruolo delle donne nella Resistenza è stato un tema a lungo sottaciuto nella ricerca, cosa ha spinto Benedetta Tobagi, che per anni si è occupata di stragismo, a raccontarlo?
Avevo soggezione ad affrontare un tema così complesso di cui non sono una specialista. E per fortuna oggi c’è molto materiale. Sono state le fotografie, che infatti sono l’anima del libro, a darmi la leggerezza di buttarmi, come in mare da una scogliera. C’era la possibilità di costruire un racconto con una sua originalità e che corrispondeva alle mie corde. E ho potuto contare sull’aiuto di un’altra donna, estremamente qualificata per di più. Barbara Berruti, direttrice dell’Istoreto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea), mi ha accompagnata nella ricerca iconografica ed è stata la prima lettrice. Posso però dire che in verità il libro sulla strage di Brescia, “Una stella nel buio”, il mio secondo libro, pubblicato ormai dieci anni fa conteneva già l’embrione de “La Resistenza delle donne”. Ampio spazio era dedicato al “mondo di prima”. C’era un capitolo che raccontava in modo corale le donne uccise dalla bomba: insegnanti, sindacaliste, protofemministe, morte in piazza per partecipare a una manifestazione contro la violenza fascista. Erano state le prime in famiglia ad avere la possibilità di studiare, lottavano per la contraccezione. Le ho sentite come delle “zie” ideali, a cui dovevo moltissimo della libertà in cui sono potuta crescere come donna. Ecco, quest’ultimo lavoro risale indietro alle “prozie”, le antenate, mie e anche loro.

Lisetta Propesrina Vallet, partigiana in Valle d’Aosta

So che molte sezioni Anpi la stanno invitando a presentarlo…
A quella genealogia di donne dobbiamo non solo la conquista della libertà, ma l’avvio di tante battaglie per l’emancipazione. per questo va loro riservata gratitudine. Sono molto contenta dell’interesse suscitato dal libro, soprattutto nella grande rete Anpi. Molte donne dell’Associazione mi hanno detto che anche in queste organizzazioni c’è ancora molto da fare per valorizzare il ruolo femminile nella Resistenza e infatti esiste un Coordinamento donne molto impegnato sul tema. Vorrei poter accogliere tutti gli inviti, ma per le presentazioni ho un tempo limitato perché lavoro.

Joyce Lussu tra Carla Capponi e Gisella Floreanini, in piedi, a un convegno delle donne della Resistenza, Roma 23-24 marzo 1950

Chi le parla ha avuto il privilegio di conoscere alcune delle donne partigiane raccontate e che oggi non ci sono più. Laura Polizzi, Marisa Musu, Marisa Ombra, tra le altre. E quindi sono ancora più curiosa. Tobagi ha scoperto qualcosa di impensato, hanno ancora da dire quelle donne?
Nel libro – che si basa sulla storia, pur scegliendo una modalità narrativa, empatica, non è fiction – ho scelto di valorizzare il lavoro di tre generazioni di ricercatrici: le ex partigiane, poi la generazione delle studiose e attiviste degli anni Settanta,  e ancora le grandi ricerche degli anni Novanta con il contributo fondamentale di studiose quali Anna Bravo e Anna Maria Brzzone, per esempio. Lo ritengo un bel racconto nel racconto, hanno restituito identità e spessore alle donne della Resistenza. Ho cercato da non specialista di dare spazio ad alcuni aspetti inediti, o comunque meno familiari al grande pubblico e mi sono subito resa conto di dover seguire quelle donne partigiane, protagoniste in armi e senza armi, anche il dopo 25 aprile, perché la battaglia delle donne è proseguita anche in seguito e continua ancora oggi. Le storie che ho voluto raccontare documentano l’impegno per un mondo corale, accogliente e inclusivo, invitandoci a essere pronti a lottare affinché ci sia posto per una pluralità di posizioni. Le donne in quei mesi tra il 1943 e il 1945 non solo si sono opposte alla ferocia del nazifascismo, alle discriminazioni delle leggi razziali, alla retorica della “madre” e dei legami “di sangue”, ma hanno nascosto partigiani e soldati alleati, figli di altre, e per questo in molte sono morte.

C’è poi il tema lungamente taciuto degli stupri e delle torture fasciste sulle donne.
Il “dopo” per loro non è stato affatto semplice, c’è stata una sorta di pressione per farle tornare nei ranghi. Non mi ero resa conto di quanto quell’esperienza fosse stata compressa, rimossa e cauterizzata negli aspetti più dirompenti e innovativi, fin dalla scoperta del senso del proprio corpo, degli amori e della sessualità. Quelle storie potentissime parlano ancora al presente, e per questo ho voluto proseguire il lavoro cercando le voci delle testimoni negli archivi sonori, per realizzare un podcast, La Resistenza delle donne. Voci partigiane, disponibile gratuitamente sulle principali piattaforme, da Spotify a Youtube.

Il generale Roberto Vannacci (Imagoecoomica, via Esercito)

Il presente a cui parlano ancora quelle donne, ragazze, madri, nonne, le prozie di tutte e tutti noi, sembra non aver fatto i conti con il passato. Che idea si è fatta delle uscite per esempio di un De Angelis sulla strage di Bologna o di un generale Vannacci?
Come sorprendersi? Abbiamo un governo di destra, la cui più rilevante componente è erede diretta del Msi, un partito postfascista che si è collocato storicamente fuori dall’arco costituzionale. Non si tratta di una formula retorica, la Costituzione nata dalla sintesi di culture politiche molto diverse tra loro, accomunate dell’antifascismo. Fin dall’inizio della stagione repubblicana una certa destra ha sempre cercato di delegittimare, deformare e ridurre l’esperienza della Resistenza. E ora è al governo. Oltretutto è una destra fortemente attaccata al proprio passato, alla sua storia e alle sue figure di riferimento. Non solo stanno cogliendo l’occasione di essere al potere per mettere in discussione il valore, la ricchezza, la complessità dell’esperienza resistenziale, il suo significato e la relazione organica con la Costituzione, ma stanno cercando di mettere in discussione alcune pagine chiave, molto complicate della storia dell’Italia repubblicana. In occasione degli anniversari delle stragi terroristiche neofasciste, non usano mai l’aggettivo “nero”, “neofascista”, “di destra”.

Roma, 19 ottobre, 2019, manifestazione del centrodestra “Orgoglio italiano”. Giorgia Meloni pronuncia la frase destinata a divenire un tormentone: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete! Non me lo toglierete!” (Imagoeconomica, Stefano Carofei)

Una sorta di attacco finale alla storia democratica italiana?
Accanto a silenzi pesantissimi persone di quell’ambiente arrivano a negare le evidenze storiche e giudiziarie. Siamo di fronte a un chiaro disegno di riscrivere la storia, che ha a che fare con la loro identità e la necessità di creare una narrazione alternativa. Non è una prerogativa italiana, il Cile o la Spagna, per esempio, faticano altrettanto a fare i conti con la loro storia, intorno alla dittatura, alla guerra civile ci sono politiche feroci. Questa destra italiana, figlia della fiamma Msi, ripropone luoghi comuni, propaganda, polemiche appannaggio dell’estrema destra per tutto il dopoguerra. Un generale Vannacci esprime una cultura reazionaria improntata sulla paura – come la stessa Giorgia Meloni – sentimento tipico dei momenti di grande trasformazione e di incertezza, e molto pericoloso, come ci ha insegnato l’intero Novecento. La diversità viene rappresentata come una minaccia, capace addirittura di capovolgere il mondo. L’attuale presidente del Consiglio è diventata molto famosa per quel discorso in cui diceva “sono una donna, sono una madre, sono una cristiana. E non me lo toglierete”. Ma chi glielo vuole togliere?

Gruppo Difesa della Donna. La foto è stata scattata il 25 aprile 1945 in piazza Martiri di Carpi (la foto, come pure l’ultima, al contrario delle altre, non è presente nel volume, proviene dall’archivio fotografico dell’Anpi nazionale)

Questo è l’anno di un 80°, l’armistizio dell’8 settembre, prima tappa di un triennio che scandirà il sofferto ma vittorioso percorso fino alla Liberazione.
Ottant’anni fa nacquero i Gruppi di Difesa della Donna. E farebbe bene a molti reimmergersi nei racconti antiretorici delle partigiane, appartenevano a culture e tradizioni politiche molto diverse, molte poi una preparazione politica non ce l’avevano proprio, avevano però tutte in comune l’idea di costruire un Paese più giusto e più libero, che si lasciasse alle spalle la politica di potenza, il nazionalismo esasperato, il partito unico, l’ideologia dell’uomo forte, o della donna forte diremmo oggi, la loro era “una guerra alla guerra”.

Tina Merlin, al centro, con due combattenti

Quindi affermare che la Resistenza guardava oltre la sconfitta del nazifascismo è vero, per le donne. Nel capitolo “La scelta”, cita Tina Anselmi, cattolica, e futura ministra della Repubblica, la prima donna a essere titolare di un dicastero: “Dovevamo agire per non essere corresponsabili dei massacri”.
La Resistenza progettava, preparava, prefigurava il futuro – ed è vero anche per le donne. Si pongono l’obiettivo di raggiungere parità giuridica, sociale ed economica. Molte di loro avevano origini sociali umilissime. Tina Merlin non aveva studiato, è mandata a 12 anni a fare la serva, eppure grazie all’esperienza resistenziale osa immaginare un futuro diverso e riesce a diventare una grande giornalista. Fu lei a denunciare le responsabilità della tragedia del Vajont del 1963. In questo momento difficile, dobbiamo tornare alle radici dell’esperienza storica della Resistenza, nella sua complessità, studiare e far conoscere. Per contrastare la confusione e le “appropriazioni indebite”, come una Le Pen che parla di Pontida come luogo di Resistenza…

Benedetta Tobagi aveva tre anni quando è stato assassinato suo padre. Esiste anche un tentativo, oltre che di riscrivere la Storia, anche di derubricare la ricerca della verità, anche processuale, sulle stragi?
Lo stragismo neofascista si colloca in un quadro di depistaggi e coperture politiche che mi hanno spinto a studiare questo atroce e terribile abuso di potere. La destra non mostra di essere disponibile a prendere atto di quanto è venuto alla luce. Come accennavo prima, o c’è silenzio, oppure il tentativo di approfittare delle lacune e della confusione creata sin dal principio perché non si doveva sapere chi davvero alimentava il terrore con le bombe. La confusione genera scetticismo, fa passare l’idea che la verità non esiste, o comunque mai si saprà. C’è in corso un tentativo di delegittimare gli esiti processuali, nonostante sia ormai chiarissima la responsabilità nello stragismo del terrorismo nero e di una parte dei servizi di sicurezza. Quanto emerge con chiarezza dai processi viene quindi attaccato, come nel caso della strage di Bologna. Penso perciò sia essenziale consolidare ciò che con decenni di indagini si è riusciti a sapere contrastare l’uso politico dello stragismo e della Memoria. Abbiamo un passato pesante, alle spalle, ma credo molto nell’ottimismo della volontà. Noi oggi abbiamo una responsabilità: portare chiarezza e ordine laddove c’è confusione. E quanto più forte è il tentativo di mistificazione, tanto più importante è approfondire, chiarire e spiegare. Come molte delle donne che ho raccontato nel libro sono figlia di un antifascista. Mio padre, per il ventennale della Resistenza, ragazzino liceale, riuscì a intervistare Giorgio Bocca per “la Zanzara”, il giornale scolastico del liceo Parini divenuto celebre all’epoca per un’inchiesta sulle ragazze e il sesso che fece scalpore.

Cerimonia di consegna delle Croci al merito alle staffette biellesi e vercellesi

Questo Paese, da quello che dice, forse non riflette gli attuali governanti…
C’è sicuramente una percentuale di persone che si sentono rappresentate da questo governo, ma comunque dobbiamo analizzare la situazione in chiave costruttiva perché a lamentarsi e basta non approdiamo a niente. È necessario riflettere sul percorso che ci ha portati fino a qui. E possiamo imparare dalle donne della lotta di Liberazione, molto antiretoriche e pure feroci nel criticare ciò che non è andato nella trasmissione della memoria resistenziale. Abbiamo la formidabile occasione di riappropriarci di quella eredità, di metterci a studiare per saper rispondere sempre a tono. Il libro è stato per me l’occasione per riconnettermi a un passato “nutriente”, nella sua verità e complessità, che non è sempre lineare. Sono stata invitata a parlare in alcune scuole e posso assicurare che tra i giovani e i giovanissimi, ragazze e ragazzi, c’è fame di conoscenza, bisogno di sapere. Se c’è un pezzo del Paese che si sente rappresentato da Giorgia Meloni o dal generale Vannacci, c’è anche un’altra parte che si sente rappresentata da altre e altri. E voi dell’Anpi lo state verificando direttamente, no?