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«Con la nostra lotta abbiamo fatto molto più che salvare la fabbrica. In questa lotta abbiamo visto la capacità di autogestirsi da parte dei lavoratori. Abbiamo visto un territorio in grado di difendere un patrimonio industriale che è anche un patrimonio collettivo. Abbiamo visto una fusione tra studenti, lavoratori, reti di competenze, intelligenze collettive. Insomma, un embrione di società diversa, nuova. Il nostro “Insorgiamo” – esattamente come lo intendevano i partigiani – indica il fatto che c’è bisogno di un moto di indignazione che metta fine a un periodo buio. E il periodo buio non è finito». Dario Salvetti, Rsu e portavoce del Collettivo di fabbrica della ex Gkn, in questi mesi è stato l’instancabile rappresentante delle ragioni degli operai in lotta. E si è fatto convinto che la vertenza che da luglio 2021 ha visto protagonisti i lavoratori della fabbrica di componentistica per auto di Campi Bisenzio è una questione che non riguarda solo i lavoratori dello stabilimento ma parla a tutto il Paese.

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Quante cose sono cambiate da quel 9 luglio quando, l’allora proprietà, il fondo inglese Melrose, ha licenziato via mail 422 lavoratori?

Dal luglio a oggi sono cambiate molte cose. C’è stata una lotta quasi di popolo a difesa di uno stabilimento, una lotta che non è stata concepita come la difesa individuale di un singolo posto di lavoro, ma la difesa collettiva di un patrimonio territoriale e pubblico. Questo ha segnato profondamente le coscienze e vedremo quanto è andato in profondità questo cambiamento nei prossimi snodi della vicenda.

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A dicembre 2021 la svolta: l’imprenditore Francesco Borgomeo rileva la fabbrica, cambiando nome in Qf spa, che sta per “fiducia nella fabbrica di Firenze”, con l’obiettivo dichiarato di una riconversione industriale del sito produttivo. Viene ritirata limpugnazione contro il ricorso vinto dai sindacati sulla vecchia procedura di licenziamento. Insomma, una vittoria. Almeno sulla carta.

Appunto, per ora sulla carta. Nel rapporto con la nuova controparte è cambiato molto, tutto e niente. Nel senso che ovviamente non siamo più proprietà del fondo finanziario che aveva messo le mani sull’azienda fiorentina dell’automotive nel 2018, siamo proprietà di un privato fisico ma al contempo questo privato non è venuto qui a fare produzione bensì a fare una gestione ponte dello stabilimento verso la vendita a un ulteriore soggetto. Quindi i lavoratori continuano a essere nell’incertezza sul loro futuro. Sicuramente la nuova proprietà ci ha acquisiti e lo ha fatto salvaguardando continuità produttiva, occupazione e diritti. Rimane però che quel passaggio di acquisizione lo abbiamo subito. Il periodo buio continua per il mondo del lavoro, per noi che siamo in cassa integrazione. Quindi pur avendo portato a casa un innegabile risultato la vittoria complessiva è ancora lontana. E se non c’è una vittoria complessiva, anche noi prima o poi saremo destinati a soccombere.

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È per questa consapevolezza che dopo il 21 gennaio – data in cui nel referendum sull’ipotesi di accordo per la Qf il 98,8% delle lavoratrici e dei lavoratori hanno espresso voto favorevole non c’è stato il classico “tutti a casa” e avete, anzi, rilanciato la mobilitazione? Il 26 marzo si terrà una manifestazione nazionale a Firenze.

Tutto quello che è accaduto oggi è grazie alla lotta e crediamo anche che sia giusto dire che tutto quello che accadrà in futuro sarà grazie alla lotta, nel senso che anche l’accordo che abbiamo raggiunto deve essere salvaguardato dalla mobilitazione. È un accordo buono, ma sono pur sempre parole su carta. Alla fine ciò che conterà saranno i rapporti di forza per difendere quelle parole e trasformarle in fatti concreti. Noi abbiamo ottenuto l’accordo sindacale migliore possibile, dentro però un contesto che ancora non ci soddisfa, che non è cambiato. Quell’accordo che noi abbiamo strappato è un accordo che norma e proceduralizza in maniera molto avanzata, con forme anche di controllo territoriale, un processo di reindustrializzazione, però forse molti non hanno chiaro cosa sia davvero un processo di reindustrializzazione. È un processo per cui una fabbrica con macchinari nuovi che producevano – e bene per l’automotive verrà a un certo punto svuotata per riportare altri macchinari nuovi che faranno un altro prodotto di un soggetto industriale terzo che noi ancora non conosciamo. Questo processo è lungo, complesso, pericoloso e pieno di insidie. È un processo che subiamo, perché non erano queste le nostre proposte. Quello che noi dicevamo è che – partendo dal nostro caso e da quello di tutte le altre aziende dell’automotive con i nostri stessi problemi c’era la possibilità di intervenire con una politica industriale pubblica per creare un polo industriale pubblico della mobilità sostenibile.

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La crisi dell’automotive chiama in causa lo Stato.

I tavoli governativi sono stati di rimessa, senza una visione complessiva. Sono apparsi intenzionati solo a gestire l’esistente e quindi tesi solamente a mitigare l’impatto sociale della crisi. Quello che non si concepisce è che lo Stato si dedica a mitigare le scelte di politica industriale fatte da multinazionali o addirittura da fondi finanziari e speculativi ma che non possa subentrare e fare la propria politica industriale per il bene di tutti. Qui non si tratta di un prodotto che non si vendeva più: il prodotto c’era e il fatto che qui ora non ci sia una fabbrica che esisteva da decenni è perché un fondo speculativo lo ha deciso a tavolino. L’idea che lo Stato possa decidere una pianificazione pubblica, mantenere una produzione e quindi anche subentrare nella produzione e avere un piano industriale di natura diversa è completamente scartata non solo dall’attuale governo ma in generale da come lo Stato pensa il suo ruolo. La verità è che in questo paese Fiat, ora Stellantis, e le multinazionali in genere hanno sempre fatto quanto volevano, per questo abbiamo sempre detto che la nostra idea chiamava in causa tutti i rapporti di forza nella società, perché non ci illudiamo da soli di poter far cambiare un dato consolidato da decenni: il fatto, cioè, che lo Stato socializza le perdite e si preoccupa solamente di garantire i profitti dei grandi gruppi privati. C’è bisogno di un cambiamento complessivo, ed è il motivo per cui noi, nonostante la vertenza abbia trovato un punto di equilibrio complessivo, il 26 marzo rilanciamo la mobilitazione.

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Cosa sarà il 26 marzo?

Non lo decidiamo da soli. Il nostro Insorgiamo è un messaggio responsabilizzante: non a caso è un plurale. Il 26 o sarà una mobilitazione collettiva o non sarà. Noi ci immaginiamo che tutte le reti nate attorno alla nostra mobilitazione che non sono solo vertenze lavorative ma sono reti ambientaliste, sociali e culturali; l’Anpi, per esempio, ci sta particolarmente vicino ragionino seriamente e si facciamo questa domanda: ma questo spiraglio (microscopico, sicuramente) che è stato aperto dalla Gkn lo lasciamo richiudere o proviamo ad allargarlo e a farne qualcosa di differente? Io come operaio ex Gkn scenderò in piazza il 26 marzo per continuare a difendere la fabbrica che comunque è ancora a rischio, chiedere una legge sulle delocalizzazioni e il polo pubblico della mobilità sostenibile. E gli altri? Starà a loro decidere per cosa scendono in piazza. Anche perché ognuno conosce bene la propria lotta e quindi ci auguriamo che anche le reti ambientaliste scendano in piazza per sostenere una transizione ecologica reale e non di facciata, così come auspichiamo che a manifestare con noi ci siano gli antifascisti, gli studenti…

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Intanto non siete stati fermi: avete portato in giro per l’Italia il vostro Insorgiamo tour che ha fatto tappa in diverse città del Paese.

Tra le modalità vecchie e nuove della nostra lotta c’è appunto l’Insorgiamo Tour. Già a fine agosto abbiamo organizzato in tutta Italia iniziative per preparare la manifestazione che il 18 settembre scorso ha portato 40 mila persone a Firenze. E non ci siamo fermati qui, abbiamo deciso di andare a Sud, di fronte ad altre fabbriche in lotta. Dobbiamo questo sforzo a tutte le persone che sono venute da tutta Italia per sostenerci. Questo problema non è solo nostro perché non siamo i soli a rischiare di rimanere disoccupati. Quando il 24 luglio abbiamo convocato in cinque giorni una manifestazione davanti ai cancelli della ex Gkn ho incontrato un ragazzo che era partito all’alba da Lecce per venire a portarci solidarietà e sostegno. Adesso a Lecce ci siamo tornati noi ed è stata una cosa emozionante. Se tante persone si sono mobilitate per noi è perché hanno intravisto in una fabbrica organizzata e con una linea di dignità un riscatto per tutti. E noi questa cosa l’abbiamo presa molto seriamente.

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La vostra proposta di legge contro le delocalizzazioni in cosa era diversa?

Quando avvengono dei licenziamenti di massa come da noi il 9 luglio e come sta succedendo alla Caterpillar, alla Bosch e in tante altre aziende anche non metalmeccaniche, si mette in moto un meccanismo ben oliato che ormai conosciamo bene: sono tutti solidali. D’altronde dire che si è contro i licenziamenti è come sostenere che si è per la pace nel mondo. Chi si dice a favore della guerra? Nemmeno quelli che la fanno. Però alla fine passano i giorni e a quelle parole non seguono mai i fatti. Perché quelle parole non servono a finalizzare la vittoria contro i licenziamenti ma solo a lavarsi la coscienza. Siccome subito dopo il nostro caso in tanti dissero che ci voleva uno strumento legislativo contro le delocalizzazioni, appena si è aperto il dibattito nel Paese abbiamo pensato di fare sentire la nostra voce. La chiamavano addirittura legge salva Gkn e non lo era. Bene, abbiamo pensato, se questa è la legge Gkn allora la scrivete con noi. La legge alla fine è arrivata in Parlamento. È vero che in Commissione bilancio il nostro emendamento è stato bocciato con un voto, ma già il fatto che un gruppo di operai sia arrivato a esprimere attraverso parlamentari solidali una proposta di legge ci permette quanto meno di dire oggi che il re è nudo. L’emendamento del governo non solo impedisce le delocalizzazioni ma le rende una procedura oggettiva. Non abbiamo chiesto 10 e ci hanno dato 5: parliamo di cose proprio diverse. Le misure del governo mettono solo un po’ di galateo, di buone maniere, nel delocalizzare.

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Una cosa però è indiscutibile al di là dell’esito dell’emendamento: in quell’occasione la classe operaia si è fatta davvero classe dirigente.

Si è classe dirigente quando risolvendo un tuo problema indichi una via che risolve i problemi di tutti. Quando attraverso la risoluzione del tuo problema fai blocco sociale, crei sviluppo progressivo, armonioso e sostenibile, sì, in questo senso noi ci siamo sentiti classe dirigente. Abbiamo dimostrato che avremmo potuto gestire la fabbrica e, se avessimo avuto uno Stato in grado di farlo, avremmo potuto risolvere sia il nostro problema sia quello della transizione ecologica. In questo senso l’analisi della vicenda va ribaltata: non siamo gli ultimi giapponesi che combattono nella giungla, siamo un pensiero forte, sono gli altri a puzzare di vecchio e sono pensiero debole. Quanto successo a noi è il risultato di 40 anni di politiche industriali ed economiche deboli e piegate agli interessi dei padroni.

Che valutazioni dell’operato di Borgomeo?

È presto per rispondere. ha chiamato questa fabbrica Qf, fiducia nel futuro della fabbrica di Firenze. A noi gli spot non piacciono. Fiducia nel futuro? Si vedrà, sicuramente non ragioniamo in termini di fiducia. Fabbrica di Firenze? Sì è vero, questa è la fabbrica di un territorio. Come tutti i privati, Borgomeo è venuto qua per trarre un’utilità, non sappiamo se è venuto a guadagnare future quote azionarie, soldi o un ritorno di immagine. Non è questione di bontà e cattiveria. È il meccanismo che non va bene. Una fabbrica deve essere salvata grazie a un cavaliere bianco che spunta fuori a un certo punto o deve essere salvaguardata dalle politiche industriali, da una pianificazione, da una idea di società? Questa è la domanda vera.

Il passaggio di proprietà avviene in piena continuità occupazionale e di diritti. Vengono mantenuti gli stessi posti di lavoro, 370, gli stessi accordi già esistenti. Insomma, qualsiasi soggetto industriale arrivi, lo deve fare mantenendo diritti e occupazione. Ma se non si palesa nessun acquirente?

Abbiamo voluto certezza sui tempi. C’è una clausola anti-attesa, “anti rana bollita”, come l’abbiamo definita noi. Se entro agosto non si palesa la reindustrializzazione, Qf può, anzi, deve chiedere l’intervento di Inivtalia, quindi capitale pubblico, per portare avanti un piano industriale che decideremo anche noi. Non solo, è prevista una Commissione di proposte e di verifica territoriale, un organismo di politica industriale praticamente inventato da noi, e si esprimeranno oltre alla proprietà, le istituzioni locali, i sindacati territoriali, la rappresentanza di fabbrica. Un Comitato che proietta il suo ruolo anche dopo la reindustrializzazione. È evidente che c’è tanto ancora da fare. La lotta continua.