Viora Maggio, Torino

“Bisogna ricordare che i grandi scioperi del marzo 1943 contro la guerra fascista, per la pace e il pane furono preparati da un lungo lavoro di gruppi clandestini con la diffusione di volantini, dei giornali l’Unità, II grido di Spartaco e Giustizia e Libertà che, soprattutto nelle fabbriche e nei quartieri operai, incitavano alla lotta per la pace e contro il fascismo.

Le condizioni della popolazione erano terribili: i continui bombardamenti aerei, la fame per il razionamento assolutamente insufficiente, per lo sfruttamento dei lavoratori, in gran parte militarizzati, costretti anche a 12 ore al giorno di lavoro.

A tutto ciò si aggiungeva l’angoscia per i familiari al fronte o sfollati, la mancanza di combustibile per combattere il freddo di un inverno molto rigido, ecc. Voglio ricordare che molti cittadini furono persino costretti ad abbattere gli alberi della periferia ma anche degli stessi parchi per non morire di freddo. Si può immaginare quali fossero poi le condizioni dei bambini.

La nostra azione di propaganda clandestina aveva quindi una grande rispondenza tra i lavoratori. Già nel mese di gennaio 1943 si ebbero a Torino alcune fermate e scioperi di protesta, anche nelle grandi fabbriche: si trattava di episodi ancora isolati che dimostravano però che la situazione stava maturando. Noi lavoravamo attraverso piccoli gruppi di tre-quattro compagni e solo uno di questi era collegato con altri gruppi: ciò per motivi evidenti di sicurezza clandestina. Se cadeva un gruppo la catena non si spezzava.

Infatti io ho conosciuto direttamente soltanto alcuni compagni tra i quali ricordo con affetto Lucia Santhià che mi collegò a Umberto Massola e i compagni con i quali ho avuto brevi contatti: Amerigo Clocchiatti, Leo Lanfranco, Leris Angelo, Giuseppe Alciati, Ermes Bazzanini, Luigi Capriolo, Cappellini, Teresa Cirio, Nella Marcellino e Rina Piccolato. Luigi Capriolo e Leo Lanfranco purtroppo dovevano cadere durante la guerra partigiana.

La prima riunione per decidere sul grande sciopero che, data la situazione, ritenevamo possibile e necessario, fu organizzata ai primi di febbraio 1943. Ci trovammo in casa del compagno Bertolino, in via Caraglio, nel quartiere San Paolo. Erano presenti alla riunione i compagni Umberto Massola, Clocchiatti, Leo Lanfranco, Capriolo, Bazzanini, Alciati e altri due compagni dei quali non ricordo il nome. Durante tutto il giorno furono discusse le modalità dello sciopero: ci orientammo per i primi di marzo e ognuno assunse precise responsabilità per i vari nuclei clandestini delle diverse fabbriche, specialmente le più grandi. Le parole d’ordine fondamentali riguardavano: l’aumento delle razioni alimentari, la diminuzione delle ore di lavoro e soprattutto la fine della guerra fascista.

II giorno 5 marzo 1943 scioperarono alcuni reparti della FIAT Mirafiori, la Rasetti e in decine di fabbriche furono attuate delle fermate.

Il 7 marzo ci riunimmo in casa mia, in via Nole. Clocchiatti era stato inviato in Emilia e al suo posto era giunto Leris Angelo. In tale riunione, dopo i risultati positivi ottenuti, si trattava di decidere un grande sciopero generale di tutto il Piemonte che avrebbe avuto anche un vasto movimento a Milano e Genova. Ci fu una accanita discussione tra di noi se dare la direttiva di non entrare in fabbrica oppure di fermare il lavoro ad un’ora prestabilita all’interno delle officine riunendo i lavoratori di fronte agli uffici delle direzioni aziendali. La tesi di tenere gli operai fuori delle fabbriche fu respinta, perché si comprese che in tal modo la polizia e la milizia fascista avrebbero potuto facilmente colpire i lavoratori e arrestare i dirigenti. Quindi l’accordo fu presto raggiunto sul giorno stabilito per il 15 marzo 1943, al suono di prova delle sirene d’allarme aereo che veniva effettuata ogni mattina alle ore 10. A tale segnale gli operai avrebbero fermato le officine raggruppandosi come deciso.

Lo sciopero ebbe un risultato che andò ben oltre le nostre aspettative, fu un colpo mortale per il fascismo e la sua politica di guerra, ci dette un grande aiuto per consolidare l’unità di tutte le forze antifasciste dando loro coscienza delle grandi prospettive che si aprivano per una vittoria della democrazia contro la dittatura”.

Viora Maggio, operaio di Torino; dalla fine del 1942 al marzo 1943 fu tra gli organizzatori dei grandi scioperi. Nato a Torino il 30 gennaio 1909 è fin dal 1935 militante e dirigente del PCI. Durante il periodo clandestino fu arrestato e deferito al Tribunale Speciale


Giovanni Brambilla, Milano

Sesto San Giovanni. Gli operai della Breda in sciopero nel marzo 1944

“Da tre giorni sono in corso gli scioperi in alcune grandi fabbriche di Milano e Sesto San Giovanni. La notizia de l’Unità sulla grande prova degli operai torinesi ha acceso la scintilla.

La mattina ho con me il materiale del Partito: l’Unità e volantini da distribuire. Nella piccola fabbrica dove lavoro pero lo sciopero non è ancora avviato. Nello spogliatoio il fiduciario del sindacato fascista sta parlando ad un gruppo di operai di una riunione che la sera stessa si dovrà tenere presso la sede provinciale del sindacato. Lo sento mugugnare, dice che non se la sente di andare “tanto fanno quel che vogliono!”.

Gli chiedo allora di darmi la sua tessera di «fiduciario» mi sarei recato io ad ascoltare e poi gli avrei riferito.

La mia proposta sorprende un po’ i presenti, si sapeva dei miei rapporti difficili col fiduciario. Qualche mese prima infatti mi aveva provocato con espressioni offensive per i miei trascorsi di antifascista ed io ero caduto stupidamente nella provocazione reagendo con violenza. Come era prevedibile dopo qualche ora venivo prelevato da una squadra e portato davanti al fiduciario fascista di Porta Venezia, accompagnato dalle inevitabili gentilezze dei miei accompagnatori. Ma nell’ufficio del giovane gerarca, che mi ricevette osservando il mio dossier, che mi apparve esageratamente voluminoso, le cose presero un’altra piega, si aprì un colloquio molto tranquillo e abbastanza lungo, che si concluse col rinvio al mio lavoro e col convincimento che il regime stava veramente vacillando.

II giovane segretario rionale fascista era reduce dalle esperienze «inimmaginabili» vissute in guerra nella Jugoslavia e in Grecia e le sue conclusioni erano che ormai non c’era più nulla da fare.

Da quel momento i miei rapporti col fiduciario di fabbrica si trasformarono. Evidentemente aveva dovuto tenere conto dei suggerimenti venuti dall’alto. II suo atteggiamento si trasformò (ecco quindi la ragione per la quale potei chiedergli la sua tessera).

Alla sera, uscito dalla fabbrica, mi reco ai sindacati fascisti. Entro senza difficoltà nel salone sotterraneo e mi siedo tranquillamente tra i fiduciari delle fabbriche arrivati da tutta la provincia. Benché ci fosse l’ordine di portare la camicia nera pochissimi la indossavano. L’atmosfera era depressa, resa ancor più pesante dagli addobbi lugubri della sala.

All’entrata dei gerarchi – con in testa Cianetti, inviato espressamente da Mussolini a Milano, seguito da Malusardi, segretario provinciale dell’Unione Sindacale e da uno stuolo di tetri individui in orbace e con al seguito il solito prelato monsignore – il «saluto al Duce» viene accolto stancamente da una muta platea. Malusardi attacca subito rovesciando sui fiduciari di fabbrica tutta la sua ira, tutta la responsabilità di quanto stava accadendo. «È possibile che non vi siate mai accorti di nulla? Ciò che sta succedendo non è una semplice agitazione economica, ma risponde al chiaro obiettivo, guidato da forze oscure del nemico, di sabotare la patria in guerra. È bene che si sappia, in Germania, di fronte a questi fatti, si procede alla decimazione, come al fronte». È la volta poi di Cianetti, che non e da meno. Mussolini gli ha conferito personalmente pieni poteri «usare la scopa di ferro se è necessario». Hitler si è preoccupato per ciò che sta avvenendo in Italia.

Cianetti che arrivava da un giro in diverse fabbriche in sciopero era manifestamente furioso per l’accoglienza ricevuta. Da Abbiategrasso era stato costretto ad andarsene in fretta letteralmente aggredito dalle lavoratrici.

L’atmosfera in sala anziché riscaldarsi diveniva sempre più gelida. I fiduciari presenti venivano dalle fabbriche ove avevano assistito allo scoppio improvviso di manifestazioni di masse esasperate. Gli stessi fascisti o avevano abbandonato la fabbrica oppure si erano uniti alla protesta. L’adunata termina in una atmosfera ancora più dimessa di come era iniziata. Esco; mi è andata bene. Passo la notizia per l’Unità che la darà nel numero dedicato agli scioperi. II giorno dopo il Corriere della Sera darà la sua versione: «…Dopo che Malusardi aveva riaffermato la saldezza della classe lavoratrice e il suo fervore fascista… il sottosegretario alle corporazioni Cianetti ha dato direttive precise sulla azione da svolgere. Le parole di Cianetti hanno più volte provocato intense acclamazioni al Duce e alla fine si è levato imperioso il canto di “Giovinezza”».

Nei giorni seguenti la polizia si metterà in movimento. Si susseguono gli arresti di compagni, si ripetono i pestaggi da parte della squadra politica. Sotto le torture il giovane Tavecchia viene assassinato e impiccato all’inferriata della sua cella. Ma il ghiaccio e rotto, mesi di duro lavoro clandestino della organizzazione comunista hanno dato i loro risultati. La spinta venuta dal rovescio nazista a Stalingrado ha dato i suoi effetti.

Ora Mussolini deve cedere, vengono concesse ai lavoratori 192 ore di indennità straordinaria, come era stato richiesto; miglioramenti alle razioni alimentari di fame, facilitazioni per le famiglie sfollate, assicurazioni delle ditte di non procedere alle deportazioni in Germania.

Ora bisogna andare avanti, la spinta del «marzo ’43» aiuta la riorganizzazione delle forze antifasciste. Il 25 luglio non è lontano”.

Giovanni Brambilla, operaio, confinato, partigiano, vicesegretario della Federazione milanese del Pci, segretario generale della Fiom provinciale milanese e senatore

Da Patria indipendente n. 3 del 27 febbraio 1983