È uscito nell’autunno scorso questo instradante volume, Per un dizionario critico della letteratura italiana contemporanea. 100 voci (Carocci editore) di Romano Luperini e Emanuele Zinato (con la collaborazione di Antonella Amato, Damiano Frasca, Federica Tozzi e Monica Venturini) che giunge a tracciare non tanto le rotte, quanto la mappa di quel che è e di quel che fa oggi la letteratura italiana e di quali connessioni o semplici chiose (o altro ancora) si possano stabilire tra presente e passato, tra la contemporaneità del nuovo millennio e il nostro Novecento (nostro d’Italia, ma quintato da un respiro europeo).
Le cento voci del titolo richiamano in maniera esplicita le Ventiquattro voci per un dizionario di lettere (1968) nell’intento non solo di superare, come il Fortini di allora, l’ordinata raccolta di informazioni per consegnare, invece, una serie di giudizi critici rigorosi ma accessibili, rivolti al grande pubblico, ma soprattutto di colmare un fossato – quello tra critica accademica e critica di intrattenimento – e di pareggiare il vuoto di chi (anche nel mondo della scuola, anche tra i ceti dirigenti), nel vivere la contemporaneità, ha perduto ormai il contatto (integro fino a cinquant’anni orsono) con la letteratura italiana contemporanea.
L’opera, che procede in ordine alfabetico, propone – così da giungere alla cifra tonda – 50 profili di poeti e narratori (si è scelto di escludere altre categorie), 25 voci su movimenti, generi e categorie critiche, e altre 25 – forse le più intriganti – su temi (Animali, Apocalisse, Corpi, Denaro, giù giù, fino a Resistenza, Straniero e Viaggi) per ognuno dei quali “si è cercato di evidenziare la lunga durata (…) e la sua persistenza nella modernità italiana, indicando qualche modello straniero e non trascurando il campo delle arti”.
E dunque si leggono con fascinazione soprattutto questi tagli trasversali nel tessuto della letteratura italiana contemporanea, le letture simboliche e psicanalitiche di alcuni lemmi e le chiose antropologiche e storiche su altri, che tutti insieme parlano dell’uomo del Duemila quasi che con essi e da essi si possa dare un paradigma – sempre provvisorio, spesso frammentario – che enunci le forme fondamentali del nostro esserci nella contemporaneità.
Vale così la pena esemplificare su alcune voci la portata dell’opera, e per far ciò non si può non partire dai corpi il cui lemma racconta il tentativo novecentesco – che prosegue anche oggi – di scardinare l’ancestrale dualismo tra materia e intelletto, tra res cogitans e res extensa: a partire da Nietzsche infatti la corporeità ha conosciuto un’inedita onorabilità (per noi oggi imprescindibile) che, tuttavia, non ha durato poca fatica a farsi strada nel sentire comune, affermando dapprima la sua dicibilità attraverso il comico e il suo conseguente (e pirandelliano) “sentimento del contrario”, passando attraverso le espressionistiche e sinestetiche disgregazioni di inizio Novecento (Gadda in narrativa, i poeti della grande guerra in poesia) per approdare alla rivoluzione sessuale e alla cultura dei consumi che hanno intavolato un nuovo discorso sul corpo, questa volta inteso come fenomeno sociale (si potrebbe variare il celebre slogan “il personale è politico” in “il corporeo è politico” senza in questo caso mutare i termini della questione), sebbene – va detto – la forza contestatrice e libertaria che ebbe questo tema altrove, in Europa o nel mondo, in Italia sia stata smussata quasi subito da una narrazione instradata sulla via della felicità corporea perduta (vedi Pasolini o Morante) e oggi, immersi come siamo nell’egemonia dello spettacolo e in croniche crisi globali, l’attenzione si sia ulteriormente spostata su scenari alternativi, quali ad esempio i corpi artificiali, quelli disabili o quelli surrogati in forme altre.
Degli animali, ad esempio, si indaga il valore perturbante, in bilico tra rappresentazione darwiniana del sadismo in natura (e della relativa complicità umana) e freudiano ritorno del represso, specie in autori come Pirandello e Svevo, i quali, poi, nel secondo Novecento lasciano luogo a figure allegoriche di animali per le quali si è perduta ogni chiave di decifrazione: molte sono le bestie indefinibili che sbucano dalle pagine fantastiche e surreali di Buzzati o di Landolfi, o di Montale, pure, dove l’io poetico si reifica in figure animalesche legate al fango, alla morte e alla rinascita, in un rapporto a tratti euforico, a tratti disforico con la natura madre e, a un tempo, matrigna.
E poi ancora Sciascia, Primo Levi, Calvino e Volponi che seguitano a fare dell’animale il luogo d’inquietudini, di paure, di pulsioni figurate o rimosse ma anche di un’alterità creaturale che veicola – meglio di altre realtà con cui l’uomo ha a che fare – l’idea del mistero muto che ci circonda.
E poi abbiamo il denaro, a mio parere altro tema fondamentale per conoscere il nostro mondo; da sempre in bilico tra valore e disvalore, il denaro, a partire almeno dalla fine nel Settecento e poi per tutto il secolo successivo, è divenuto la metafora capace di indicare la vitalità e il dinamismo della società: laddove il denaro circola – mutuando per il campo economico un lessico che è quello della biologia – c’è vita e c’è il ribollire di forze e di passioni (l’onnipotenza economica, l’ascesa sociale dei ricchi) che hanno donato al denaro un vero e proprio substrato mitico, un “nuovo incantesimo sociale” che nella narrativa italiana di fine Ottocento ha visto la massima espressione nella tragica autodistruzione del Mastro don Gesualdo di Verga, per poi apparentemente perdere vigore nei decenni successivi.
In realtà Svevo e Pirandello non rinunciano al tema del denaro e anzi lo trasformano, quasi in maniera sistematica, in un prolungamento dell’inconscio e delle proprie violente pulsioni; e se nell’ambito delle avanguardie, in specie degli espressionisti vociani, la mannaia cade senza pietà sulla società borghese e i suoi soldi – a favore di una quasi stoica astensione – ecco che tra le due guerre e poi oltre torna prepotente il tema del denaro: in Moravia, per primo, e poi, più tardi, nel Calvino della Speculazione edilizia e ne La vita agra di Bianciardi, controcanti schietti, arrabbiati, ironici al miracolo economico in atto. Di lì nascerà, a cavallo tra i due millenni, quel raggelante ritratto dell’homo oeconomicus ferocemente postumano (quello che va da Volponi a Saviano, da Siti a Lagioia) in cui “la ferocia umana si distingue da quella animale per l’onnipotenza del denaro nel dominare le vite e nel tracciare la reversibilità fra cacciatori e prede”.
Una dialettica fra prede e cacciatori che – in una certa misura – ritorna nel tema dello Straniero e nel rapporto che la civiltà occidentale ha sviluppato su chi è considerato strano, diverso, barbaro; va però detto che per gli italiani la relazione non è sempre stata a senso unico: se infatti è vero che la nostra occidentalità odierna permette – malauguratamente – di rappresentare molti altri altrove “in base a una relazione simbolica di potere”, all’inizio della modernità non è stato così: l’Italia ottocentesca era un paese arretrato e gli italiani erano spesso stranieri in terra altrui (le lontane Americhe) e abbiamo avuto fior di scrittori – da Verga a De Amicis – che hanno narrato fin troppo bene tale sudditanza economica e psicologica.
Subordinazione che peraltro non ha impedito anche da noi l’affermarsi di un immaginario orientalista (specie a inizio Novecento) in bilico tra seduzione e orrore (Pascoli), tra esotismo e erotismo violento (Marinetti) e, contemporaneamente, alla creazione di un primo dispositivo di identificazione con il diverso da cui è sorto un sempre più complesso cortocircuito della missione “civilizzatrice” dell’Occidente: se infatti in Salgari godiamo del primo sguardo a favore dello straniero, mano a mano che procediamo nel Novecento e interiorizziamo – sulla scia di Freud – il concetto di barbarie e di pulsione di morte, ecco saltar fuori le allucinazioni della psiche legate alla guerra e al diverso nel Buzzati del Deserto dei Tartari, nel Flaiano di Tempo di uccidere e, alla massima potenza, laddove “la raffigurazione dello ‘straniero’ si problematizza con la figura del deportato”, nel Primo Levi di Se questo è un uomo; per poi approdare, a fine secolo, a una letteratura “migrante”, quella che finalmente dà la parola ad autrici originarie delle ex colonie, come Igiaba Scego, Ornela Vorpsi o Gabriella Ghermandi; e poi ancora, negli ultimissimi anni, per torcere la figura dello straniero in quella da una parte del rifugiato politico o del naufrago, e dall’altra del terrorista islamico minaccioso e messo lì apposta – qualcuno direbbe – per far saltare in aria i margini più ambigui di uno stereotipo vecchio di millenni.
Infine, in questa carrellata per forza di cose parziale e soggettiva, non poteva mancare un accenno al lemma Resistenza. Per essa, gli autori prendono le mosse da una questione capitale che purtroppo ancora oggi opprime e deprime ogni buon uso della memoria storica: il tentativo, innescato a partire da Il sangue dei vinti di Pansa, di celebrare i “vinti”, di ridurre la lotta di Liberazione a “colpevole carneficina operata dai partigiani comunisti”, di degradare la Resistenza a gratuita guerra civile. Ecco allora che, contro i montanti revisionismi e le ignobili strumentalizzazioni, l’opera di Pavone e quella di Portelli hanno avuto il merito non tanto di difendere miopemente una memoria oleografica quanto di restituire “pluralità e problematicità alla Resistenza”.
Così il tema – dopo i tentativi di erosione – si è ispessito e riverberato in campo letterario, facendo, per così dire, esplodere dall’interno la categoria stessa di neorealismo a cui la letteratura della Resistenza sembrava in un primo momento essere legata a doppio filo; ché in realtà gli scrittori che la lotta partigiana l’hanno fatta e poi raccontata usano le soluzioni formali più varie (si pensi quanto sono distanti le pagine di un Pratolini o di un Bilenchi da quelle, ad esempio, di Fenoglio); ciò che piuttosto ha accomunato – e accomuna ancora oggi – la narrazione letteraria della Resistenza è la rappresentazione complessa e antiretorica di quei famosi venti mesi, da cui emergono, soprattutto nel nostro nuovo millennio, i suoi contenuti “rimossi”; un riaffiorare che adopera, fin dagli esordi, diversi dispositivi: “lo straniamento, lo sguardo dal basso, la logica del desiderio, l’ironia”, a cui vanno aggiunti, per certo, il rapporto simbolico e psicologico col paesaggio e tutto quel pulviscolo di ‘questioni private’ senza le quali non si darebbe la letteratura resistenziale.
Si devono fare ancora una volta i nomi di Calvino, di Fenoglio, di Meneghello, del celebre racconto Oro di Primo Levi, così lontano dagli intenti celebrativi (lì viene narrato un episodio di giustizia fra partigiani) così come lo è Aracoeli di Elsa Morante. E si arriva così ai giorni nostri dove il tema resistenziale non ha smesso di affascinare le giovani generazioni nonostante un contesto in cui l’immaginario antifascista ha perso credito, relegato nella scuola per par condicio fra le opposte “giornate della memoria” e “del ricordo”, e i giovani avvertono la fascinazione per simboli e stili di vita di estrema destra, percepiti come eroici, non ipocriti, alternativi.
Ecco, in questa temperie alcuni scrittori (come il sottoscritto, o Eraldo Affinati, Stefano Valenti, Helena Janeczek, o ancora Simona Baldelli, Simone Ghelli e Aldo Simeone) hanno ripreso in mano il tema resistenziale non solo per cercare di ridare voce a chi, per motivi anagrafici, non ce l’ha più (o quasi) ma anche per sottrarre la memoria al tentativo, scatenato su più fronti, di semplificarla e alterarla, con le mosse, da una parte, dei revisionismi tendenti a equiparare fascisti e partigiani, e dall’altra di chi ne vuole ridurre la complessità e le contraddizioni in nome di una miope rappresentazione di maniera.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 20 Giugno 2021
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