Sebben che siamo donne
Paura non abbiamo

I canti italiani della protesta femminile sono innumerevoli, più di quanti si potrebbe immaginare, vi trovano espressione “voci disperate provenienti dall’inferno della società patriarcale, insieme a significative testimonianze della condizione della donna nella società industriale”, scrive Giuseppe Vettori. Canti spesso dimenticati, ignorati, mai davvero valorizzati sono, invece, testimonianze della creatività che le donne hanno manifestato da sempre nella lotta per la loro affermazione sociale, politica, personale e collettiva. Lotta su cui è bene riaccendere la memoria.

Utile, nell’affrontare questo viaggio, è un testo piuttosto celebre, Canti della protesta femminile, a cura di Agata Currà, Giuseppe Vettori e Rosalba Vinci, edito da Newton Compton nel 1977. Calato nel vivido clima della contestazione politica e sociale degli anni Settanta, che vide l’affermazione dei movimenti di protesta degli studenti e degli operai e di quelli femministi, è però sostanzialmente un saggio senza tempo, che suggerisce considerazioni utili anche sul presente e conferma la validità della canzone popolare come strumento di indagine sociale. Focalizzata qui sul tema dell’emancipazione femminile, al quale rivolgono la loro attenzione anche cantautrici folk di oggi.

Perché la rivoluzione delle donne passa anche attraverso il canto e le canzoni da intonare, spesso in forma collettiva e spontanea. Non solo la singola artista, ma cori di donne, a partire dagli anni delle contestazioni esprimono la propria liberazione intonando canti del passato, riconsegnati all’ascolto e alla divulgazione pubblica, in virtù del lavoro di ricerca sul campo effettuato dai protagonisti e dalle protagoniste del folk revival. Oppure creandone di nuovi, sulle esigenze più contestuali e stringenti. Stanche di fare le “segretarie della rivoluzione”, gli “angeli del ciclostile” le donne a un certo punto decidono di organizzarsi autonomamente e di cantare la loro liberazione.

Liberazione da cosa, innanzitutto? Dai ruoli che le vedono relegate alla gestione dei figli, per esempio, o alle incombenze domestiche, madri e mogli servizievoli, obbedienti e perennemente a disposizione. Ruoli imposti da un’arcaica società patriarcale, inscritti nel Dna delle donne, dai quali svincolarsi appare operazione complessa, e sempre soggetta a meccanismi reazionari. Ruoli che la mentalità maschile ha stereotipato in canti spesso sbraitati nelle osterie, nella società patriarcale sfogatoi di angosce e frustrazioni. Canti volti a sminuire la donna, esasperandone in negativo i tratti fisici.

L’elenco è lunghissimo. Tra i vari esempi, La mia morosa vecchia, diffuso in Italia settentrionale, inserito nella raccolta Canti del Grappa. Il canto popolare nella tradizione orale della Pedemontana del Grappa, la cui esecuzione originale è riprodotta nel disco Italian folk songs (Folkways Records, 1965), a cura di Alan Lomax e Carla Bianco, dalla voce delle informatrici Anita Macor e Nives Dosso, originarie del Friuli ed emigrate negli Stati Uniti:
La mia morosa vecchia/la tengo per riserva,/ma quando spunta l’erba/ la mando a pascolar.

Oppure Al ha ’n purèt sel nas, canzone da “piola” (osteria) molto diffusa in Piemonte, anche in ambiente urbano. Ha una verruca sul naso/grande come una boccia/e da una parte ha un gozzo/che le va a finire in tasca.

E se non sono brutte e vecchie, nell’immaginario maschile le donne, soprattutto nei canti di origine più antica, sono descritte come infanticide, assassine, adultere.

Canti misogini, espressione di epoche oscure in cui, secondo una morale cristiana, la donna incarnava il male, era diabolica seduttrice, strega tentatrice, istigatrice di peccaminosi istinti che il maschio doveva fare la fatica di reprimere.

In Donna lombarda, per esempio, della quale esistono miriadi di varianti, stando al plot, la protagonista femminile che tradisce il marito, scoperta dallo stesso nel tentativo di assassinarlo, viene punita con la morte, costretta lei stessa a bere la pozione preparata per il consorte. L’album Il Nigra cantato 1: Donna lombarda a cura di Franco Coggiola è interamente dedicato alla ballata. Tra le varie interpretazioni si distingue quella di Giovanna Daffini, Donna lombarda di Gualtieri incisa in Una voce, un paese (I Dischi del Sole, 1967).

Altro canto significativo è L’infanticida, in cui la protagonista che uccide la propria figlia neonata concepita fuori dal legame consacrato, per non turbare l’ordine costituito, viene condannata all’impiccagione dal suo stesso padre. Ritrovata ad Asti nel 1964 da Franco Coggiola e Roberto Leydi, una versione della ballata è stata incisa da Sandra Mantovani con il Gruppo dell’Almanacco Popolare nel lp Almanacco Popolare. Canti e balli dell’Italia settentrionale (Albatros, 1976).

Sulle donne così degenerate, dunque, il maschio-padrone ha tutto il diritto di esercitare il proprio potere e di imporre loro i corretti comportamenti da seguire. Tra i quali essere morigerate e fedeli, come in Fiori di campagna, tra gli stornelli di lavoro raccolti nell’Alto Aniene da Donatina Furlone ed Ettore de Carolis ai primi anni settanta: Non ti fa dà li baci da nessuno.

Ma anche pronte a sacrificare la propria vita, come in Diarsera posi un giglio, rispetto toscano intonato dalle amiche dalla sposa mentre preparano il letto per la prima notte di nozze. Su quel letto la giovane sboccerà come un giglio, avvizzirà, condannandosi a una vita di sottomissione. Caterina Bueno lo registra nella zona dell’Amiata e lo incide nell’album La Toscana di Caterina (Tank Records, 1968).

La più nota E cinquecento catenelle d’oro è preceduta dalla strofa con la metafora del giglio: Diarsera posi un giglio alla finestra/diarsera il posi e stamani gli è nato/andai ad affacciarmi alla finestra/con le sue fronde mi copriva il capo.

Fino a morire per amore come in Eran tre falciatori, canzone narrativa raccolta sempre da Caterina Bueno nella zona di Bivigliano e incisa nell’album omonimo (Eran tre falciatori, Cetra, 1973). Storia di una giovane che, trovato il suo amato morto in un campo, lo lava, lo asciuga con i lunghi capelli, lo accompagna alla sepoltura, per poi spirare poco dopo, per crepacuore.

Oppure essere pazientissime mogli, come la giovane sposa di Moran dell’Inghilterra, canzone arcaica raccolta, tra gli altri, da Sandra Mantovani nel Canavese, incisa nell’album Servi, baroni e uomini (Albatros, 1970).

Dallo stesso album, la Mantovani incide anche E l’an taglia i suoi biondi capelli, versione recente, databile alla Prima guerra mondiale, di una canzone narrativa antica, che vede la figura femminile costretta a superare infinite prove per assecondare i ruoli per lei già stabiliti.

Non si può che rilevare, poi, come nella tradizione della musica popolare la donna, essere inferiore, fosse considerata sostanzialmente un oggetto, un corpo da usare a piacere dal maschio.

Dall’album Quando ero una monaca, a cura di Michele L. Straniero (I Dischi dello Zodiaco, 1975), in E mì vurìa, ultimo degli Stornelli di Venezia e Pout Pourri, per esempio, pur con linguaggio allusivo, l’atto sessuale è inequivocabile: E io vorrei una bella figliola che avesse due buone scansie (scaffali), che avesse una buona chitarra e la sapesse ben bene suonar.

Nello stesso album, L’uccellin della comare, canto raccolto nel grossetano da Michele L. Straniero, si inserisce nel medesimo filone goliardico.

La donna, del resto, con niente si lascia irretire. Lo dimostra per esempio Il cacciatore del bosco, ballata dal carattere maschilista che nella versione raccolta ad Asti da Franco Coggiola, oltre alla vicenda del cacciatore seduttore che si approfitta della contadinella, aggiunge i commenti della gente. Alla nascita di un bambino: “Ne faremo un cacciatore come suo padre”; mentre alla nascita di una bambina: “Ne faremo una puttana come sua madre” (Canti della protesta femminile). Giovanna Daffini la incide nell’album La Mariuleina, canzoni padane (I Dischi del Sole, 1968). Il canto è circolato molto nel repertorio d’osteria, militaresco, goliardico. Tra le tante versioni, quella del Duo di Piadena.

La donna è una proprietà che spesso viene contesa, come in Pellegrin che vien da Roma, in cui il pellegrino protagonista approfitta dell’ingenuità dell’oste che gli offre il suo letto coniugale: Sporcaccione d’un pellegrino, cosa hai fatto a mia moglie? Canzone narrativa arcaica, esistente in molteplici varianti, entrata anch’essa nel repertorio leggero. Un’esecuzione del Gruppo Padano di Piadena venne inserita nello spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano Bella Ciao e incisa in Le canzoni di Bella Ciao, (I Dischi del Sole, 1965).

La donna può anche essere rapita, come in Ratto al ballo, canzone narrativa arcaica, raccolta da Roberto Leydi e Franco Coggiola ad Asti nel 1964, dalla voce di Teresa Viarengo. Imperniata sulla triste vicenda di una moglie che nonostante il divieto del marito, va al ballo del figlio del re, che se la porta in camera e poi a passeggiare in riva al mare. Richiamata dei figli, per la grande disperazione e vergogna, la donna si getta in mare dove viene ritrovata morta.

Altro rapimento si narra nella canzone Nel bosco di Leandro, anch’essa raccolta dalla voce di Teresa Viarengo, benché a rapire sia, con un sotterfugio, il principe di Lione che fa della rapita, la sua sposa e una regina. Una versione ricalcata è quella di Bruno Pianta in Servi, baroni e uomini.

La donna può anche essere data alle fiamme, come nel canto anti-femminile E dàlle un altro péttolo, raccolto nel Grossetano da Michele L. Straniero: M’è cascata la moglie ne’ foco/ ‘’un so se la levo o ma se la copro/ già che la cosa è andata così/dàmmi la mano e la voglio coprir. Inciso nell’album Quando ero monaca.

Ma anche comprata: qualche scudo per una notte d’amore, come in La bevanda sonnifera (La fontanella) canzone arcaica raccolta a Ceriana da Alan Lomax e Diego Carpitella nel 1954, eseguita dal Gruppo dell’Almanacco Popolare in Canti popolari italiani (Albatros, 1969).

Così come comprata, la donna può essere venduta. Come in Storia di Pasquino, contrasto raccolto da Caterina Bueno nella zona dell’Aretino, inciso in La Toscana di Caterina:
Da me la manderai sera e mattina/a cucinarmi pane e maccheroni,/far le faccende in camera e ’n cucina,/ a riguardarmi mutande e calzoni,/le chiavi di granaio e la cantina;/ e io di vino te ne do un barile, un sacco t’empirò di gran gentile.

Quando poi il corpo della donna è stato violato, all’uomo spetta la decisione di prendersene carico, sposando la sventurata, o abbandonarla alla sua sorte, come in Quando venivi a San Piero, canto ricostruito da Caterina Bueno, da una serie di frammenti coi quali è rievocata la vicenda di Ersilia, originaria di San Piero a Sieve:
Quando venivi a San Piero/ ci venivi colla divisa; / è da poco che mi hai lasciato /e a San Piero non ci vieni più. Caterina Bueno la incide nell’album live con il Coro degli Etruschi (Pegasus, 1975).

Oppure Hai ben ragion se piangi, in cui partorire una figlia è considerata una tale rovina da scansare nell’uomo anche la sola idea del matrimonio. Canto appartenente al genere militaresco, raccolto in Toscana dal Canzoniere Internazionale (Cittadini e contadini, I Dischi dello Zodiaco, 1972).

Se le donne, invece, decidono di opporsi alle volontà del maschio padrone ecco che è lecito imporre loro un destino di morte. La tradizione popolare è colma, infatti, di donne assassinate. Le donne destabilizzano l’ordine costituito e per questo sono soggetti pericolosi, da richiudere o da eliminare. Si veda La povera Rosetta, canzone narrativa del repertorio della malavita risalente ai primi del Novecento, originata da un fatto di cronaca avvenuto a Milano: un agente di polizia assassinò la sua amante, Rosetta, una prostituta, nella casa di lei. Tra le molte versioni, la canzone entrò poi anche nel repertorio di carcere e di osteria, vi è quella di Maria Monti  in Canzoni popolari italiane (Ricordi, 1965).

Vi sono poi due canzoni narrative antiche, raccolte da Roberto Leydi ad Asti nel 1964, di nuovo dalla voce di Teresa Viarengo, sul tema della violenza omicida che si abbatte sulle donne.

La celeberrima Cecilia, presente in tutto il territorio nazionale in diverse varianti. Storia di una giovane che, per salvare il marito dall’impiccagione, accetta di passare una notte col boia-capitano che però non rispetta il patto e la mattina seguente uccide sia l’uomo che la povera Cecilia. Sandra Mantovani la incide in Servi baroni e uomini.

In Gli anelli, in cui la dama gentile, che viene incolpata di infedeltà dal marito, il Principe Raimondo, partito in guerra, viene uccisa insieme al figlio. Suicida pure il marito scoperto l’inganno, ordito dal fratello. Una versione della ballata è eseguita dalla Viarengo in Il cavaliere crudele (I Dischi del sole, 1965).

La ragazza assassinata, (o I tre galanti), canzone narrativa di origine arcaica, vede protagonista una giovane molestata da tre uomini che non vuole perdere l’onore e per questo viene derubata e infine uccisa. Tra le versioni più note quella raccolta da Amerigo Vigliermo nel Torinese nel 1972, incisa dalla Viarengo in Teresa Viarengo e la ballata popolare in Piemonte (ed. Nota).

Chi pretende di avere voce in capitolo e di poter scegliere o rifiutare le richieste di un maschio paga questa onta fin nell’altro mondo. Come in ’Ndetti all’inferno, ottava raccolta nel Viterbese nel 1971 da militanti del Circolo Bosio di Roma:
Vidi l’inferno tutto illuminato/vidi la bella mia che in fiamme ardeva/ e me lo disse: “Cane rinnegato,/ pure all’inferno mi vieni a dar pena.

All’ambito della famiglia sono dedicati molti canti, nei quali si contesta il vincolo matrimoniale come istituzionalizzazione della subalternità della moglie. Tra questi, molto accesi, vi sono alcune ninne nanne. Come la toscana La malcontenta, con funzione di sfogo della moglie verso il marito. Il matrimonio diventa uno spazio di conflitti che si sintetizzano nella ripetizione del verso: babbo gode, la mamma stenta. Raccolta in Maremma da Caterina Bueno incisa in La Toscana di Caterina, se ne trova poi una versione nell’album di Daisy Lumini, Daisy come folklore (Cedi, 1969), con un ritmo duro e martellante che accentua il sentimento di rabbia e sconforto.

Altra celebre ninna nanna, più delicata, E la mi’ mamma, è stata raccolta nel senese da Caterina Bueno che la incide in La Toscana di Caterina:
E la mi’ mamma me lo diceva:/piglià marito nun farà ma’ bene;/andare a letto a lume della luna,/il piatto in grembio e il piede sulla cuna.

Sul tema della mal maritata anche Il lamento della sposa, canzone toscana eseguita da Daisy Lumini in Daisy come folklore.

E poi Stornelli senesi, pubblicati come testo poetico da Giuseppe Tigri (Canti popolari toscani, 1856), intonati da Dodi Moscati nell’album Ti converrà mangiare i’ pan’ pentito (Cetra, 1975):
Ragazze belle e bone,/da me tutte imparate,/zitelle e maritare, a avé giudizio:/ s’entra in un precipizio/appena fatte spose;/ e so dell’altre cose e ’un le vò dire.

Sempre la Moscati incide Non posso più cantar (oVoglio marito) in La miseria l’è un gran malanno (Cetra, 1974), canto di rimpianto di una vita ormai malamente trascorsa: E se fu il mio amor allor contento/ora sì che lo sconto e n’ho tormento.

Una volta sposata, la donna subisce le volontà del marito, ne diventa proprietà esclusiva, ed è costretta a seguire le sue disposizioni. Anche in caso di prematura dipartita dell’uomo, alla moglie o fidanzata spetta perpetua vedovanza ed eterna disperazione. Come in Il povero Luisin, canto risalente al 1859 durante la seconda guerra d’indipendenza. In questo frangente Luisin perde la vita, gettando nella disperazione l’amata il cui povero cuore, a distanza di anni, è ancora lì per lui. Incisa da Sandra Mantovani nell’album Il povero soldato1 e nello spettacolo Milanin Milanon (1962).

Più dolente Mare maje, lamento funebre di provenienza slava, dalle ricerche di Ernesto De Martino, penetrato in Abruzzo con le migrazioni avvenute non prima della seconda metà del XV secolo. Dolente me, scura me, tu sei morto e io che faccio? Giovanna Marini ne ha offerto una intensa versione in Lu picturare, con Maria Teresa Bulciolu (I Dischi del Sole, 1964).

Meglio ancora morire di crepacuore e crollare sulla tomba del marito deceduto. Come in Storia del grillo e della formica, ballata d’infanzia recuperata da Caterina Bueno dove è la formicuzza a morire sulla tomba del grillo, suo promesso sposo (Eran tre falciatori, Cetra, 1973).

In Ragazzine vi prego ascoltare, invece, c’è tutto il dolore della fidanzata del soldato morto sul Piave. Raccolta nel Bergamasco da Riccardo Schwamenthal nel 1966, una versione originale è inserita nell’album Addio padre, riproposta nello spettacolo Ci ragiono e canto.

Arrivati qui, davanti a queste narrazioni, si comprende come nel percorso di liberazione, alle donne sia stato necessario compiere un immane processo di ricostruzione, passando dall’essere oggetti, una “femminilità creata, inventata, divinizzata dagli uomini per continuare a esercitare la loro egemonia” all’essere soggetti, e ritrovare così le proprie istanze vitali (Canti della protesta femminile). Questo, a partire dalla scoperta del corpo come fonte di piacere per se stesse e non unicamente oggetto di piacere per l’altro, svincolandosi così dallo stereotipo della povera sedotta e abbandonata, per diventare colei che sceglie o rifiuta, imponendo il proprio desiderio e interesse.

Il cambiamento di rotta si avverte in canti come Pesci fiorenti, stornello toscano pubblicato da Leydi in I canti popolari italiani (Mondadori, 1973):
Ho canzonato diciannove amanti/e se canzono voi saranno venti. /Colgo la rosa e lascio star la foglia/ho tanta voglia di far con te all’amor.

E poi Addio morettin ti lascio, dal repertorio di risaia. Qui la mondina lascia l’amante occasionale con cui si è intrattenuta per alleviare le fatiche del lavoro, per tornare a casa dove il fidanzato l’aspetta. Giovanna Daffini, lo incide in Una voce, un paese, con il controcanto di Michele L. Straniero. (I Dischi del Sole, 1967).

Il rapporto con l’uomo nel corteggiamento diventa alla pari, come si avverte in La mamma ’un vole, stornello raccolto da Dodi Moscati a Incisa Valdarno (Album La miseria l’è un gran malanno):
E a me mi piaccion gli òmini biondi/perché biondino è l’amore mio/biondino lui, moretta sono io/ che bella coppia che ha creato Iddio! 

Ma anche in E me stanot gh’ho fai, sequenza di villotte lombarde, registrate a Cremona nel 1971, (pubblicate da Leydi in I canti popolari italiani), dove si passa dalla fase dell’amore alla rottura sentimentale giungendo a un finale inedito, in cui la giovane riesce a rispondere con sarcasmo alle provocazioni dell’ex-innamorato: Il mio innamorato mi ha mandato una lettera, mi ha mandato a dire che son poveretta; io ho controllato le sue ricchezze, lui porta la giacchetta tutta rammendi e pezze.  E poi È qui il martello che batte le ore, villotta raccolta nella zona di Bergamo nel 1966 da Leydi, incisa nell’album di Albatros, Italia vol.3. Il canto lirico satirico la polivocalità in cui si canta: Di la passione non sono mai morta/né questa volta non morirò.

Le esigenze sessuali e sentimentali, a questo punto, possono venir espresse in modi più o meno sottintesi. In Mamma mamma mi sento un gran male, sono nella forma di un contrasto tra madre e figlia, in cui il desiderio sessuale è definito come la malattia. Raccolto da Caterina Bueno nella zona di Arezzo faceva parte dello spettacolo Ci ragiono e canto. Caterina Bueno la incide poi in La veglia (I Dischi del Sole, 1968).

Così, anche nell’iniziativa sessuale le donne vogliono e possono proporsi, mettendo da parte pudori e timidezze. Vedasi in E picchia picchia la porticella, dal repertorio di risaia di Giovanna Daffini, che la incide in Folk Festival 2 dove, tra gli applausi della folla, canta Io voglio amare quel giovanotto/ch’l’ha fatt sett’anni di prigion per me (I Dischi del Sole, 1969).

Nell’ottava siciliana Quantu basilicò, raccolta da Alberto Favara a Erice, la sessualità fa esplicita nell’intima esperienza olfattiva: Le tue tenere carni profumano tanto che a chi le odora passa il sonno. Rosa Balistreri la incide in La cantatrice del sud (Rca, 1973).

In questo percorso di consapevolezza del proprio corpo, dei propri sentimenti e della sessualità che può spigionarsi senza sensi di colpa, anche l’aborto è vissuto come scelta che deve essere privata del giudizio sociale. Si veda il canto Abortire di Fufi Sonnino del Movimento Femminista Romano che apriva al tema dell’aborto legalizzato, che verrà sancito nel 1978, con la legge 194 sulle “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”:
Si faceva chiamare dottore/perché aveva la laurea ad onore;/era lui che faceva abortire/ le compagne per centomila lire.

Lo stesso tema è affrontato in Le guardie hanno bussato, adattato sul canto di carcere A tocchi a tocchi la campana sona:
Le guardie hanno bussato stamattina/hanno messo ’n galera la pòra Nina;/ se po’ beccà quattr’anni pe ’n aborto:/chi è povera c’ha da subì sto torto. (Dall’album: Canti delle donne in lotta, Movimento Femminista Romano).

La ribellione delle donne contro i ruoli imposti dalla società maschile è, dunque, rispecchiata in canti di diversa provenienza. Quelli del passato, come L’eroina (o Si gh’ era ’l fiol del conte), canzone narrativa molto diffusa in Piemonte e in Lombardia, in cui la fanciulla destinata a sicura morte, con un tranello riesce a tagliare la testa al malefico sposo. Una versione è fornita dal Gruppo dell’Almanacco Popolare in Canti popolari italiani.

Ma esistono anche canzoni di recente composizione, come Noi siamo stufe del Movimento femminista romano, composta nei primi anni Settanta, che inneggiava a una rivoluzione delle donne, attraverso l’affrancamento dagli stereotipi costruiti dalla pubblicità, dall’essere sfruttate sul lavoro, costantemente etichettate, per realizzare invece un cambiamento radicale: Ci dicon sempre di sopportare,/ma da oggi vogliamo lottare: per la nostra liberazione/facciamo, donne, la rivoluzione!

Stornello per i compagni, del Gruppo musicale del Comitato femminista di Padova, appare una definitiva condanna del sistema maschilista, da contrastare mediante la lotta collettiva:
Cari compagni, /pochi, che dite di capire:/ giorno per giorno il nostro /potere/da sole noi / conquisteremo. /Contro la nostra schiavitù/noi lotteremo!/Cari compagno che dite /di capire/ con eguale potere un giorno/ ci incontreremo!

Venendo ai giorni e alle voci di oggi tra le interpreti che continuano la tradizione del canto popolare vi è la catanese Eleonora Bordonaro, ricercatrice e cantautrice, particolarmente attenta al tema della parità tra i sessi, dell’emancipazione femminile. Tra le tante, compone Sprajammu di la luna (siamo sbarcate dalla luna, album Moviti ferma, 2020), canzone femminista di lotta, scritta insieme a Marinella Fiume, ex sindaca di Fiumefreddo (Catania), biografa di tenaci siciliane del passato. La melodia classica di sdegno dei canti d’amore è diventata qui il canto di rivalsa di donne che rivendicano la propria indipendenza:
Siamo arrivate anche da lontano/consegniamo alla terra senno e sostanza./Con gli occhi al cielo guardiamo lontano,/piedi nel fango e coltello in mano./Siamo sbarcate con la luce della luna/femmina, nuova piena e calante/e come lei lucenti e cangianti/originali, sconfinate e fuori dagli schemi./Portiamo frutti di nuova coscienza/semi antichi e amore all’infinito,/la convivenza la gioia, la nostra scienza,/non approfittate della nostra pazienza./È giunto il tempo del nostro tempo/il nostro tempo che non c’è più tempo./Acconsentite con un po’ di coraggio/che senza di noi è finito il viaggio./Acconsentite con forza e coraggio/che senza di noi è finito il viaggio.

Il passo successivo è quello che ha visto le donne affacciarsi in società, affermandosi nel mercato del lavoro, sia nella società rurale che in quella industriale, nelle quali sono per lungo tempo vittime di sfruttamento economico, demansionate nei ruoli, umiliate nelle richieste. Il contributo delle donne per il raggiungimento di migliori condizioni lavorative, salari più adeguati, orario più dignitoso è sempre stato fattivo, in alcuni contesti determinante, soprattutto nel lavoro dei campi.

Legato al mondo agrario è il canto E per la strada, nato nel 1908 nel Parmense, zona di grandi scioperi di contadini e braccianti. In quel momento di lotta fu presa la decisione di mandare i bambini figli degli scioperanti in altre città, ospiti di compagni socialisti. Dalla voce di una madre, ricavata da un foglio volante si ricostruisce l’episodio e lo spirito di rivalsa delle masse, uomini e donne, unite contro il potere padronale. La intona Sandra Mantovani in Canti e inni socialisti (I Dischi del Sole, 1963).

Altro popolarissimo canto di protesta delle donne è La lega, nato tra il 1900 e il 1914 nella pianura padana ed entrato nel repertorio delle mondine. Sandra Mantovani la incide in Le canzoni di Bella ciao (1965) con il celebre controcanto di Giovanna Daffini.

In questo contesto, le mondine rappresentarono un esempio eccezionale. Erano battaglioni di lavoratrici che attraverso scioperi e manifestazioni collettive seppero ottenere vantaggi, soprattutto in termini di salario. Protagoniste delle prime esperienze di emancipazione dalla famiglia e di acquisizione di una professionalità, seppur scandita da fatiche e condizioni deprimenti, lottarono sempre, imponendosi davanti ai padroni, come gruppo solidale. Tra i canti, che rientrano nel repertorio della ex mondina Giovanna Daffini, numerosi lamentano la durezza del lavoro. L’amarezza delle mondine (Quando saremo a Reggio Emilia), in cui la fatica in risaia non era sufficiente a ripagare una vita di miseria. Incisa in Amore mio non piangere (I Dischi del Sole, 1975).

In Una voce, un paese si trova Anche per quest’anno, databile tra gli anni Quaranta e Cinquanta, amara cronaca della vita delle risaiole.

Tra i più noti, Amore mio non piangere, dall’album omonimo.

Ma soprattutto Le otto ore, canto registrato da Sergio Liberovici dalle mondine di Vercelli che lo facevano risalire al 1906, anno in cui il deputato Modesto Cugnolio presentò alla Camera il progetto di legge per ridurre a otto ore la giornata lavorativa delle mondine, ma è probabile che si possa collocare alle lotte per le otto ore del biennio 1921-22 dopo la grande rivoluzione bolscevica (Canti della protesta femminile). Inciso in I canti di lotta delle mondine (Canti popolari).

Son la mondina son la sfruttata, invece, con testo di un funzionario del PCI Pietro Besate, scritto in occasione di un congresso nel 1950, è un grido di lotta che partiva dalle mondine e si estendeva a tutto il mondo dei lavoratori, per la costruzione di un sistema più egualitario. Un’esecuzione del Canzoniere delle Lame si trova nell’album Canti rivoluzionari italiani (Vedette, 1972).

E poi ci sono le fabbriche in cui le donne si impiegano come operaie, tessitrici, filandine. In numerosi canti esprimono il loro senso di ingiustizia e lo spirito di ribellione alle infime condizioni di lavoro.

Tra i più noti di filanda vi sono: Quando sento il primo fischio, del repertorio di Palma Facchetti di Cologno al Serio (Bergamo), incisa in Ci ragiono e canto 2, di cui resta un frammento.

Povere filandine, registrato nel veneziano da Sergio Serra, inciso nell’album Addio Venezia addio del Canzoniere Popolare Veneto, dove si distingue la voce di Luisa Ronchini (I Dischi del Sole, 1968).

O mamma mia tegnìm a cà, raccolto nel comasco: La filanda è una prigione. È la prigione dei prigionieri, della filanda son proprio stufa. E poi Mama mia mi sun stüfa, raccolta in Brianza, che Sandra Mantovani incide in Canti del lavoro 1 (I Dischi del Sole, 1962).

Semo tute impiraresse, canto delle infilatrici di perle veneziane, che lavoravano a domicilio per ‎le conterìe, le fabbriche di vetro di Murano. Un lavoro che consisteva nell’infilare piccole perle di vetro o su fili di cotone speciale, per ‎essere utilizzate nell’abbigliamento (ricami e collane), oppure sul fil di ferro, per creare oggetti ‎decorativi. Un mestiere che richiedeva pazienza e destrezza e che pure era una delle attività meno ‎pagate, con uno sfruttamento della manodopera a basso costo che iniziava dagli otto anni e ‎proseguiva fino a tarda età. Nel finale il canto presenta un incitamento alla lotta: Avanti sempre che vinceremo contro lo sfruttamento. La incide Luisa Ronchini nell’album omonimo (Cetra, 1975).

Devento mata in fabbrica affronta il tema della poca dignità che tocca alle donne, costrette al lavoro in fabbrica e ai lavori domestici in famiglia: E a netar el cesso/lo gò da fare gratis/ solo perché son dona. Il Canzoniere Popolare Veneto la esegue al Festival Nazionale De L’Unità di Venezia nel 1973, con la voce di Luisa Ronchini.

Fino a Stato padroni del Gruppo musicale del Comitato di Padova che pone l’accento sul riconoscimento economico anche dell’impegno domestico che in toto faceva (e fa ancora?) capo alla donna, anche quando lavoratrice fuori casa. Inciso in Canti di donne in lotta (I Dischi dello Zodiaco, 1975).

Intero album:

Nel ternano si intonava Semo de Cinturini, canto di lotta delle operaie dello jutificio, raccolto da Valentino Paparelli e restituito dalla voce di Lucilla Galeazzi (Canta Lucilla Galeazzi, 2001). La fabbrica, nata nei primi del 900, era proprietà dell’ingegnere Centurini, il cui cognome, per varie ragioni, veniva storpiato.

La forza del repertorio popolare sta nel fatto che i canti sono materiale manipolabile, una base su cui costruire. Così, in un documento del 1971 che mostra una giovanissima Giovanna Marini ospite dei lavoratori del panificio Panella, fabbrica occupata, il canto di risaia Ama chi ti ama, con l’aggiunta di nuove strofe attualizzate sui problemi correnti, diventa un canto di lotta collettivo in cui alla voce della Marini, sul ritornello, tutti si accordano.

Tra le voci significative nel panorama della musica popolare di oggi l’umbra Sara Marini nell’album Decantoincanto (2019), ripropone una versione di Bella ciao mondina, resa celebra da Giovanna Daffini,

mentre la siciliana Francesca Incudine con la sua No Name (Tarakè, 2018) ricorda l’incendio della Triangle di New York, fabbrica dove il 25 marzo 1911 persero la vita 146 lavoratori e lavoratrici, tra cui anche giovani donne italiane, soprattutto siciliane. La tragedia delle operaie newyorkesi è uno degli eventi dolorosi che hanno ispirato l’istituzione della Giornata Internazionale della donna, ricorrenza che ogni anno si celebra nella data dell’8 marzo.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli