La guerra che verrà
non è la prima.
Prima
ci son state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.

La guerra che verrà,  Bertolt Brecht

L’analisi di  Bertolt Brecht è lucida e definitiva: le guerre esistono da sempre. Da quando esiste l’uomo le guerre non hanno mai smesso di essere combattute. Perché gli interessi dei potenti sono da sempre la prima urgenza, e alla povera gente tocca stare dalla parte dei vinti, di chi va a combattere e muore. Ieri, come oggi. Le canzoni sono una fonte eloquente, una testimonianza di come i conflitti sono stati vissuti dalla parte delle vittime; spesso documento introvabile se lo si cerca tra i testi, sui manuali ufficiali della storia di un Paese.

Invece, ci sono canzoni che sono entrate nel racconto epico di un popolo, raccolte e catalogate dagli studiosi ed etnomusicologi che hanno salvato dalle macerie un patrimonio inestimabile, negli anni del folk revival. In Italia come in altri Paesi. Altre sono diventate inni alla pace che hanno risuonato in tutto il mondo, divenendo, di epoca in epoca, canto collettivo, richiamo alla vita, bisogno di futuro. Così, i canti di guerra e di pace del passato sono arrivati a noi, che ancora possiamo ascoltarli e comprenderne l’attualità. Perché il tempo passa, ma ancora uomini e donne cadono sotto le bombe, a volte pregando, a volte maledicendo, a volte sperando.

In Italia il grande lavoro di ricerca sul canto orale svolto, tra i tanti, da Roberto Leydi, Michele L. Straniero, Emilio Jona e Giovanna Marini ha portato alla luce canzoni strazianti nate nelle trincee, sul fronte, nei luoghi delle carneficine di soldati che lì sono rimasti.

Nei luoghi, per esempio, della Prima guerra mondiale, la cui vittoria costò all’Italia 700.000mil tra morti e dispersi, più di un 1 milione di feriti gravi e 100mila grandi invalidi. Nei canti anonimi, come pagine di diario, si ascolta la voce di chi è andato incontro alla fine invocando ogni male per chi aveva voluto la guerra. Canzoni che nella loro crudezza appaiono ancora più autentiche, con parole rivolte ai potenti, artefici delle stragi. Voci anonime che, di soldato in soldato, sono diventate la voce di intere comunità, che hanno patito e che ancora oggi patiscono lo stesso dolore. L’abbandono degli affetti, la fame, il freddo, la deprivazione fisica e morale.

Canti come Addio padre e madre addio, lamento disperato di chi è costretto a partire e saluta la famiglia per l’ultima volta, certo di un destino segnato: Per l’Italia mi tocca morir. La guerra è condannata nella maniera più risoluta: Sian maledetti quei giovani studenti/che hanno studiato e la guerra voluto/han trascinato l’Italia nel lutto,/per cento anni dolor sentirà. La canta Giovanna Marini, con il Coro Inni e Canti di lotta.

Altro canto anonimo è Fuoco e Mitragliatrici, probabilmente composto tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916. Alle pendici del citato Monte San Michele era situata una trincea che da una parte andava al bosco Cappuccio (qui chiamato Monte Cappuccio), e dall’altra alle trincee delle Frasche e dei Razzi (qui citata come Trincea dei Raggi). La conquista di quest’ultima, il 16 dicembre 1915, costò alla brigata Sassari la morte di un numero impressionante di soldati. La guerra è una costrizione e chi la combatte sa che dal fronte non farà ritorno. Più la guerra è crudele, più il richiamo alla pace si fa accorato. Sandra Mantovani esprime tutta la pietosa rassegnazione di questo canto.

O Gorizia, la cui versione originale venne raccolta da Cesare Bermani, a Novara, da un testimone che affermò di averla ascoltata dai soldati che conquistarono la città, è probabilmente il canto più evocativo dello strazio che avvenne. Nella battaglia di Gorizia, infatti, persero la vita quasi duemila ufficiali e circa cinquantamila soldati di parte italiana; più di ottocento ufficiali e quarantamila soldati di parte austriaca. Fu una ecatombe. La sua conquista, avvenuta l’8 agosto 1916, ebbe un costo altissimo e proprio in quell’occasione venne composta questa dolente canzone antimilitarista che diventerà celeberrima nel 1964 nella versione cantata da Michele L. Straniero, che sostituiva Sandra Mantovani, vittima di un abbassamento di voce, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nello spettacolo Bella ciao del Nuovo Canzoniere Italiano.

Straniero cantò, infatti, una strofa non prevista: Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù che suscitò tafferugli, incidenti in sala da parte di ufficiali fascisti, tentativi di impedire la rappresentazione, una denuncia per vilipendio delle forze armate a Straniero, Leydi, Crivelli e Bosio. L’intensa versione di Sandra Mantovani:

La versione di Giovanna Marini con il Coro Inni e Canti di lotta che reinserisce la strofa censurata.

Ninna nanna della guerra, poi, nasce dai versi scritti da Trilussa nell’ottobre del 1914 all’inizio del conflitto. La musica è ripresa dall’aria di una canzone popolare piemontese intitolata Feramiù (ossia rottamaio ambulante), di autore anonimo. Nella loro semplicità, le parole del poeta romano rivelano le verità della guerra: combattuta da gente che se scanna / per un matto che comanna e che attorno a ogni guerra ci sia sempre un gran giro de quatrini.

La canta Maria Monti nella raccolta Ama chi ti ama (2018) e originariamente in Le canzoni del no (1964, Dischi del Sole), disco che venne sequestrato dalla magistratura per il contenuto ‎sovversivo.

Vi erano presenti, infatti, canzoni fortemente antimilitariste, tra cui Strontium 90, da una poesia del poeta, drammaturgo e scrittore turco naturalizzato polacco, Nâzim Hikmet. Faceva riferimento a uno degli elementi radioattivi che si sviluppano in seguito alle esplosioni atomiche. Il canto satirico del 1959 di Ann e Marty Cleary fu intonato negli Stati Uniti, in tutte le grandi manifestazioni pacifiste degli anni 60.

Questa la traduzione: Che strano tempo fa:/ora la neve, ora il sole,/ora la pioggia./Sono gli esperimenti atomici -dicono-,/lo Strontium 90 si posa/sull’erba,/sulla carne,/sulla segale./Sulla speranza/e sulla libertà/e sul grande sogno,/alla cui porta/bussiamo./Siamo in gara con noi stessi, o mia rosa,/o noi porteremo la vita/sulle stelle morte/o la morte/calerà sul nostro mondo.

Rudy Assuntino lo ripropose a Monti, accentuandone il tono sarcastico: Stronzio, Stronzio, Stronzio 90/tutti quanti all’inferno manderà,/di questo Stronzio, Stronzio, Stronzio 90/qui ce n’è per tutti in quantità.

Ma in quell’album era incisa, soprattutto, la Canzone della Marcia della Pace, che invitava a disertare la leva e la chiamata alle armi: E se la patria chiede /di offrirgli la tua vita /rispondi che la vita /per ora serve a te. Testo di Franco Fortini e musica di Fausto Amodei, venne improvvisata dai due durante la Marcia della Pace Perugia-Assisi del 24 settembre 1961. Gli autori subirono un procedimento giudiziario e il disco su cui era stata successivamente incisa la Canzone fu sequestrato.

Dello stesso tema è Le Déserteur, canzone francese conosciuta in tutto il mondo, scritta da Boris Vian nel 1954 e pubblicata nell’esecuzione di Marcel Mouloudji il 27 maggio di quello stesso anno, giorno della disfatta della Francia nella battaglia di Dien Bien Phu, che segnò la fine della guerra d’Indocina. La canzone è una lettera indirizzata a un “Egregio Presidente” da un uomo chiamato alle armi, che non se la sente di andare in guerra, non è un assassino e non lo vuole diventare. Margot (Margherita Galante Garrone) per prima la incise in Italia nel 1964.

Anche in Inghilterra lo studioso e artefice del folk revival inglese, Ewan McColl, marito di Peggy Seeger, nel 1954 scriveva The ballad of Ho Chi Minh, dopo la vittoria di Dien Bien Phu sui francesi, episodio alla base proprio di Le Déserteur. Vittoria dovuta principalmente al rivoluzionario e patriota vietnamita, primo ministro del Paese dal 1945 al 1955 e suo Presidente dal 1955 al 1969, Ho Chi Minh insieme al generale Giap. La canzone, con una melodia tradizionale irlandese, venne molto cantata durante la guerra del Vietnam.

In Germania, intanto, Marlene Dietrich rendeva leggendaria Lili Marleen, il canto forse più intonato durante la Seconda guerra mondiale dai combattenti di tutte le trincee appartenenti a ogni schieramento. Canzone tedesca, scritta da un soldato durante la Prima guerra mondiale, tradotta in innumerevoli lingue, diventa simbolo di fratellanza universale e di pacifismo.

Anche in Italia dopo la Seconda guerra mondiale canzoni del passato vengono riproposte (come nel caso dello spettacolo Bella ciao), altre nuove e originali nascono. Del 1958 è Dove vola l’avvoltoio? scritta per Cantacronache da Italo Calvino e cantata da Pietro Buttarelli, è anticipatrice del pensiero pacifista e antimilitarista che esploderà con forza qualche anno dopo. Canzone dalla struttura narrativa di tipo favolistico, imperniata sull’immagine di un avvoltoio, allegoria della guerra e in generale dell’odio umano capace solo di produrre, attraverso essa, morte e annientamento. Questa immagine inquietante ricorda quella presente nel racconto “Ultimo viene il corvo” sempre di Calvino in cui l’avvoltoio volteggia sul soldato tedesco preannunciandone la morte. Canzone, comunque, innovativa e precorritrice di una certa sensibilità: “Il pacifismo allora non era un verbo diffuso – spiega Emilio Jona nel volume Politica e protesta in musica, di chi scrive –. Certamente non eravamo i soli, ma era nuovo pensare a un mondo di pace, anzi era relativamente insolito”.

La tematica sarà esplicita nella canzone di Fabrizio De André, La guerra di Piero (1964), peraltro debitrice a Dove vola l’avvoltoio? per la ripresa di alcune immagini,

e nell’ inno pacifista Blowin’ in the wind (1963) di Bob Dylan.

Una delle immagini più famose della guerra in Vietnam, scattata da Eddie Adams

E proprio con il cantautore ci spostiamo negli Stati Uniti, che combattono, a partire dall’attacco di Pearl Harbor all’alba del 7 dicembre 1941, contro l’Impero giapponese, la Germania nazista e l’Italia fascista, per poi incagliarsi nelle faide della Guerra Fredda e infine restare impantanati, dal novembre 1955 fino all’aprile 1975, nella disastrosa guerra in Vietnam.

Contemporaneamente eventi tragici e azioni di riscatto per l’affermazione dei diritti dei neri si s susseguono nelle città americane, partendo dal sud. Nel 1955 l’uccisione del giovane di colore Emmet Till, per motivi razziali; nel 1956-57 il boicottaggio del Montgomery Bus dopo il rifiuto di Rosa Parks di cedere il posto su un autobus a un bianco; nel 1960 il movimento del sit-in e le azioni del comitato non violento degli studenti, Sncc; l’anno successivo gli attivisti di Freedom Riders in viaggio sui pullman per far valere alcune sentenze della Corte Suprema che riconoscevano la segregazione sui mezzi di trasporto come anticostituzionale; nel 1963 la piena affermazione del Movimento per i diritti civili con la Marcia su Washington e il celebre discorso di Martin Luther King.

In questo contesto alcune canzoni diventano inni per la pace e l’uguaglianza. Come We Shall Overcome (letteralmente “vinceremo”, oppure “lo supereremo”). Come spiega Clara Murtas nel volume “Canzoni per la pace”, il canto ha origini gospel, forse risalente al 1903, del Reverendo Charles Tindley di Philadelphia, che conteneva il verso ripetuto più volte I’ll overcome some day, ma più verosimilmente da una canzone gospel successiva che conteneva i versi Deep in my heart, I do believe / I’ll overcome some day. Mentre a Charleston (Carolina del Sud) nel 1946, i dipendenti dell’American Tobacco Company in sciopero, per lo più donne afro-americane, cantano degli inni durante un cordone per un picchetto, una donna di nome Lucille Simmons c intona una versione della canzone cambiando il testo in We’ll Overcome. Zilphia Horton, una donna bianca e moglie del cofondatore della Highlander Folk School la impara da lei e l’anno dopo la insegna a Pete Seeger, padre del movimento di riscoperta del canto popolare, militante e politico e divulgatore della canzone folk.

Seeger (o qualcun altro, lui stesso ha dichiarato che potrebbe essere stata l’attivista Septima Clark) sostituisce We will overcome con We shall overcome. Vi aggiunse poi alcuni versi (We’ll walk hand in hand, The whole wide world around) e la insegna al cantante californiano Frank Hamilton, che a sua volta la tramanda a Guy Carawan, c il quale la introduce all’Highlander Folk School nel 1959. Da lì si diffonde oralmente e diventa un inno dei sindacati afro-americani nel sud degli Stati Uniti e dell’attivismo per i diritti civili.

Il brano ottiene larga fama nel 1963 quando Joan Baez, paladina per i diritti civili, lo registra nell’album Very Early Joan, cantandolo in numerose marce e manifestazioni, coinvolgendo il pubblico come coro.

I lavoratori agricoli negli Stati Uniti cantano la canzone in spagnolo durante gli scioperi e i boicottaggi della vendemmia alla fine degli anni 60. La versione galiziana Venceremos nós è stata l’inno del movimento studentesco contro la dittatura all’Università di Santiago di Compostela negli anni 1967-68.

Oh Freedom, altro canto gospel di autore anonimo, sul tema della schiavitù del popolo nero, con la voce di Joan Baez si fa preghiera collettiva di pace e libertà.

Pete Seeger è ancora protagonista come autore di altre canzoni, tradotte in varie lingue: Where Have All the Flowers Gone? è scritta nel 1956 con interventi successivi sul testo del folk-singer e letterato Joe Hickerson, sulla musica di una canzone popolare americana, Drill ye tarriers drill.

La rendono memorabile Joan Baez

e Marlene Dietrich nella versione tedesca.

e francese.

E poi The Hammer Song, rivisitazione di una canzone popolare americana che inneggiava alla pace: I’ve got a song to sing all over this land /It’s the hammer of justice, It’s the bell of freedom /It’s the song about love between my brothers and my sisters /All over this land.

Nel 1963 Bob Dylan pubblica il primo disco con una serie di canzoni anch’esse destinate a diventare universali inviti alla pace. Blowin’ in the wind, in particolare, con le celebri domande su tematiche esistenziali e sull’incapacità dell’uomo di ripudiare in maniera definitiva la guerra.

E la più diretta, Master of War, in cui Dylan si scagliava contro i padroni della guerra, colpevoli di costruire armi e distruggere il mondo: Come you master of war, you that build the big guns /you that build the death planes, you that all that bombs/you that hide behind walls /you that hide behind desks /I just want you to know I can see through your mask.

Sullo stesso tema, qualche anno dopo, nel 1970, i Black Sabbath scriveranno War pigs, (1970), una canzone contro i “maiali della guerra”, coloro che lucrano sui conflitti armati.

Universal Soldier, del 1964, incisa nell’album di esordio della cantautrice canadese Buffy Sainte-Marie, “It’s My Way”, venne inizialmente venne attribuita a Donovan che, nel 1965, la portò a un successo planetario.

Nelle strofe che si susseguono viene descritto un soldato di differente statura, età, corporatura, religione e credo politico: è il “soldato universale” che attraversa tutte le epoche della storia combattendo per ogni paese e per ogni convinzione possibile. Fiducioso di portare, in questo modo, la pace nel mondo, non comprende che continuare a combattere significa solo generare nuove guerre: He is fighting for Canada, he is fighting for France/He is fighting for the Usa /He is fighting for the Russians, he is fighting for Japan /And he thinks we’ll put an end to war this way.

Del 1965 è I ain’t marching anymore, l’inno dei sit-in contro la guerra nel Vietnam diventato poi uno dei canti contro la guerra di tutti i tempi. Il suo autore, Phil Ochs, famoso per le sue topical songs, ispirate a temi di attualità e alla cronaca, per questa canzone venne bandito dalla programmazione radio e tv in tutti gli Stati Uniti. Il testo passa in rassegna tutte le guerre combattute da un povero soldato contro gli inglesi, gli indiani, contro i messicani, contro i tedeschi lasciando dietro di sé una scia infinita di sangue. Ma ora, dopo la missione finale nel cielo giapponese, da cui ha scagliato la bomba atomica, non marcerà mai più. Perché sono sempre i vecchi a mandare alla guerra, e sono sempre i giovani a cadere per conquistare qualcosa per cui non vale la pena.

Dietro la spinta giovanile l’America continua a cantare la pace, alle soglie degli anni Settanta.

I Jefferson Airplane in Volunteers (1969) scrivono: One generation got old, one generation got soul (una generazione è diventata vecchia, una generazione ha un’anima), ovvero: sta invecchiando la generazione conformista e militarista mentre un’altra sta creando la nuova anima pacifista dell’America.

https://www.youtube.com/watch?v=OzHBr0ndKus

I discendenti della beat generation, nomadi hippie, celebrano la costruzione di un mondo rigenerato, di tolleranza, e amore libero, spesso sospinti dall’abuso di droghe. Si ritrovano nelle coffee houses, ai live dei The Birds, cantando la loro I come and stand at every door (Fifth Dimension, 1966)

o Five to one dei Doors incisa in Waiting for the sun (1968),

e poi nei grandi raduni di massa. Come Woodstock che, però, il 21 agosto 1969, metterà la parola fine a quel momento di esaltazione collettiva. Nel 1968 l’acuirsi dei conflitti razziali aveva portato all’assassinio di Martin Luther King e poco dopo di Robert Kennedy. Nel frattempo, la guerra in Vietnam mostrava all’America tutto lo scempio dei tanti giovani che tornavano a casa mutilati, oppure chiusi nelle bare ricoperte dalla bandiera a stelle e strisce.

Forte si levava la voce dell’ex-Beatles John Lennon che nel 1971 scriveva Imagine, con un messaggio all’umanità per un mondo migliore dominato dalla pace e dall’amore in tutte le possibili manifestazioni.

Un messaggio ribadito dal successivo Give peace a chance, con il ritornello All we are saying is give peace a chance ripetuto come un mantra ai raduni pacifisti.

In Italia il celebre incipit del brano Proposta del gruppo beat I Giganti, Mettete dei fiori nei vostri cannoni riecheggia nel teatro del Festival di Sanremo del 1967 e in tutte le case, rendendo universale il pensiero del Flower Power, movimento americano che aveva il fiore come simbolo di pace.

Ma nel nostro Paese gli anni Sessanta sono segnati soprattutto dalle voci dei cantautori. Sergio Endrigo nel 1963 scrive La guerra, sottolineando il tema del conflitto bellico come occasione di gloria, ma solo a detta di coloro che non lo combattono in prima linea, in realtà una scusa per motivare giovani impreparati, da sempre sullo sfondo, emarginati dalla Storia, a cui viene chiesto di morire, senza fare tante storie.

Luigi Tenco in E se ci diranno (1966), esprime il suo rifiuto della guerra, al cui richiamo rispondere categoricamente: No.

Francesco Guccini, in Folk Beat 1 (1967) canta Noi non ci saremo, canzone apocalittica, visione di un mondo distrutto da una nuova arma nucleare, che rinascerà, con il suono del vento dell’estate a intonare “un canto fra mille rovine/fra macerie della città”, senza più gli uomini.

Gianni Morandi, invece, sul testo di Lusini e Migliacci, ispirato dalla guerra in Vietnam, lanciava la celebre C’era un ragazzo,

che farà sua anche Joan Baez.

Ispirata al conflitto in Vietnam, è anche la struggente Ninna nanna per un bambino del Vietnam, scritta con Beppe Chierici e cantata nel 1975 Daisy Lumini. I proventi della canzone andarono a sostegno dei bambini orfani vietnamiti.

Tra le voci femminili, anche Margot che interpreta e arrangia la Ballata delle donne, su testo di Edoardo Sanguineti. Nella seconda sestina, dai ricordi dell’adolescenza del poeta vissuta durante la lotta di Liberazione, emergono due immagini di donne combattenti: una partigiana che è stata ferita, un’altra che è caduta. Due protagoniste di azioni di guerra che, con il loro sacrificio, ancora dopo tanti anni, trasmettono al poeta pensieri di pace, perché è per conquistare la pace che si sono battute. Concetto che Sanguineti ha così bene espresso nel verso: femmina penso, se penso la pace.

Anche altre voci, più militanti, come Ivan Della Mea, traevano spunto dalla vicenda degli Stati Uniti in guerra per fare un bilancio dell’Italia. Nel 1969 scriveva Perché mai parlarvi di pace?: Perché mai parlarci di pace /se ogni giorno si vive alla guerra /se per uno di loro per terra/sono mille i morti per noi.

Fabrizio De André ha dedicato al tema pacifista molte canzoni, tra cui la già citata Guerra di Piero, ma anche La ballata dell’eroe (dal disco De André, 1970) in cui il protagonista va in guerra mosso dall’idea di aiutare il suo Paese, per poi restare ucciso. Per chi lo ha amato resta solo una medaglia alla memoria.

Del 1978 è Generale di Francesco De Gregori, canzone struggente sull’amore che vince sopra ogni guerra.

In questi stessi anni l’Argentina si preparava a combattere la guerra delle Malvinas-Falkland contro l’Inghilterra, per il possesso delle isole, che porterà a una strage di giovani. Combattuta nel 1982, avrà come colonna sonora la canzone Solo le pido a Dios scritta dal cantautore León Gieco qualche anno prima e portata poi alla ribalta della cantora del pueblo, Mercedes Sosa. La canterà anche per celebrare la fine della sanguinaria dittatura militare in Argentina, di cui lei stessa è stata vittima, tra censure, arresti, esilio. La canzone, censurata nel ’78 dal governo militare, viene poi dichiarata “canzone di interesse nazionale per la pace” nel 1982. Una preghiera a Dio perché le guerre, continue e ricorrenti, non diventino mai un’abitudine: Solo io chiederò a Dio/che la guerra non mi lasci indifferente/è un mostro grande e si divora/la povera innocenza della gente.

Riproposta anche da Ginevra Di Marco nell’album La Rubia canta la Negra del 2017.

Negli anni Ottanta gli scontri armati sembrano dare una tregua al mondo; ci sono i Culture Club con War is stupid (1986) a ricordarci di quanto la guerra sia inutile, ma gli antagonismi covano in silenzio ed esploderanno in nuovi conflitti negli anni Novanta.

Il 20 marzo 1993 due bombe nascoste nei cestini della spazzatura esplodevano in una via di Warrington, cittadina inglese a pochi chilometri da Liverpool. Cinquantasei i feriti, due i morti: un bambino di tre anni e uno di dodici. Gli autori dell’attentato erano fanatici dell’Ira. Era uno degli innumerevoli colpi che segnavano il conflitto etnico-nazionalista in Nord Irlanda, tra irredentisti irlandesi e governo inglese. Zombie, scritta a ridosso dei fatti dalla cantautrice irlandese Dolores O’Riordan, diventata amaramente attuale con l’invasione russa dell’Ucraina, è il simbolo delle atrocità di tutte le guerre, il ricordo delle uccisioni di quelli e di tutti i bambini, universale canto antimilitarista.

I bambini come vittime indifese di azioni terroristiche o di guerre tra popoli sono protagonisti in altre canzoni della O’Riordan, scaturite dagli eventi di quegli anni, le nuove guerre che sconvolgono l’Europa. Quella del Golfo, quella civile nella ex-Jugoslavia con gli episodi gravissimi di pulizia etnica in Croazia e in Bosnia Erzegovina e l’intervento militare della Nato in Bosnia. La strage etnica di Srebrenica e il durissimo assedio di Sarajevo. Per condannare le atrocità di queste e di tutte le guerre scriverà due intense canzoni: War Child, sui bambini vittime del potere politico: War child/Victim of political pride/Plant the seed, territorial greed/Mind the war child/We should mind the war child;

e Bosnia: All we sing songs in our room / Sarajevo erects another tomb (Noi cantiamo nelle nostre stanzette / E Sarajevo erige un’altra tomba).

Per denunciare le atrocità della lunga guerra nella ex Jugoslavia nel 1999 usciva anche Il mio nome è mai più a firma di Lorenzo Jovanotti, Luciano Ligabue e Piero Pelù.

Recentemente, a distanza di quasi 30 anni dall’album The Division Bell, i Pink Floyd pubblicano Hey, Hey, Rise-Up!, brano inedito, a sostegno della popolazione ucraina, per incoraggiarla a rialzarsi. Gilmour e Mason, affiancati da Guy Pratt al basso e Nitin Sawhney alle tastiere, accompagnano la voce di Andriy Khlyvnyuk, cantante ucraino della band Boombox, la cui traccia vocale è stata estratta da un video in cui il cantante intonava il brano Oh, The Red Viburnum In The Meadow, marcia patriottica scritta nel 1914 da Stepan Charnetskii e tornata popolare in seguito all’attuale conflitto.

Altre guerre si sono combattute, in epoche lontane e in questo XXI secolo, e altre ancora segneranno il destino di uomini e donne. Tra tutte le canzoni, le parole, le musiche unite nella medesima supplica a sospendere ogni conflitto, attuale e che verrà, non si può non appellarsi, come ultimo richiamo, a un canto senza tempo, come Bella ciao. Canto anonimo, scritto e cantato forse durante la Resistenza italiana o forse no, forse prima o forse dopo. Ciò che importa è che sia divenuto il canto di pace e di libertà più conosciuto al mondo, che ogni popolo ha fatto suo, traducendo i versi nella propria lingua, cantandolo coralmente o con voce solista nei luoghi di morte e distruzione, o di rinascita, a richiamare la forza della libertà, della democrazia, dello spirito di uguaglianza che deve aleggiare sempre sopra gli uomini.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli