L’ordine è stato eseguito

«Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito in Via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi a incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito».

Riepiloghiamo brevemente i fatti.

Il 23 marzo, anniversario della nascita del fascismo, nel primo pomeriggio un commando partigiano aveva fatto esplodere un ordigno in Via Rasella mentre passava una colonna di militari tedeschi e l’aveva successivamente attaccata. I nazisti persero complessivamente 33 uomini con numerosi feriti. Per rappresaglia, i tedeschi uccisero alle Cave Ardeatine 335 italiani prelevati dalle carceri o rastrellati dopo l’esplosione. Tra questi c’erano 75 ebrei.

Il comunicato che abbiamo riprodotto in apertura fu emanato intorno alle 22.55 del giorno successivo, 24 marzo, dall’Agenzia “Stefani” e rappresenta la prima notizia pubblica dell’azione di Via Rasella e del massacro delle Fosse Ardeatine. I romani ne vennero a conoscenza il giorno dopo, 25 marzo, con l’arrivo dei giornali alle edicole e con la trasmissione da parte di Radio Roma, che mise in onda il dispaccio soltanto alle ore 16.

Sono dati ormai definitivamente accertati che fanno giustizia delle molte tutt’altro che disinteressate leggende nate intorno a quei tragici eventi.

Innocui territoriali?

La prima leggenda riguarda le truppe tedesche colpite. Si è detto che quella di Via Rasella non era un’unità combattente, come se i suoi appartenenti fossero dei “veci alpìn” in disarmo, buoni per qualche parata domenicale. La realtà è ben diversa. La formazione in questione era l’11ª compagnia del Polizie regiment “Bozen”, costituita di alto-atesini, in pieno assetto di guerra, dotata di armamento pesante, con al seguito un veicolo corazzato su cui era montata una mitragliatrice. Il suo compito – e l’addestramento dei suoi uomini – era rivolto al controllo della popolazione e all’intervento in caso di sommosse e insurrezioni. Stranamente, ma non troppo se si tiene conto dell’impatto dissuasivo che l’unità in questione doveva imprimere sulla popolazione da un punto di vista anche psicologico, l’addestramento prevedeva il pieno apprendimento di una canzone che nella fattispecie era “Hupf, mein mädel” (salta, ragazza mia).

Teresa Gullace, uccisa da un motociclista della Polizie regiment “Bozen”

Questi presunti innocui territoriali il 23 marzo sfilarono per le strade di Roma con il colpo in canna (testimonianza di Franz Bertagnoll). Apparteneva al “Bozen” il motociclista che il 3 marzo aveva ucciso a sangue freddo a Viale Giulio Cesare Teresa Gullace, la popolana rievocata con l’indimenticabile interpretazione di Anna Magnani in “Roma città aperta” di Roberto Rossellini.

Ma il nome del “Bozen” risuonerà sinistramente a lungo nei mesi successivi. Ecco come ne ha ricostruito la criminale attività Cesare De Simone in Roma città prigioniera: «Dopo la liberazione della città, le compagnie 9ª e 10ª (l’11ª era stata praticamente annientata a Via Rasella) vennero inviate al Nord e nell’inverno 1944-’45 presero parte, insieme alla Divisione SS “Herman Göring” e alla Brigata Nera “Ettore Muti” (quella di cui il fascista Giorgio Pisanò ha scritto che era costituita da «avanzi di galera» – nota nostra) ai feroci rastrellamenti antipartigiani nel Nord-est. La 9ª operò in Istria, la 10ª nella vallate del Bellunese. Furono bruciati decine di villaggi, intere popolazioni passate per le armi come in Val di Bois e a Forcà; i fucilati e gli impiccati nei rastrellamenti cui partecipò il “Bozen” saranno 800, tra combattenti garibaldini e civili inermi fra i quali donne e bambini».

Le manipolazioni della verità

L’altra leggenda riguarda la diffusione delle notizie. Ci si sono esercitati in molti, compresa persino Edda Mussolini, la quale in un’intervista a La Stampa dell’8 maggio 1994 ebbe a dire: «Ma in ogni modo dopo l’attentato i tedeschi avevano fatto appendere i manifesti in tutta la città di Roma, ed eravamo in tempo di guerra!». Per proseguire: «Ma sì, voglio dire che dopo Via Rasella se i gappisti che avevano fatto esplodere i camion delle SS si fossero presentati entro le ventiquattr’ore alle forze di polizia tedesche, non vi sarebbe stata nessuna strage. La rappresaglia tedesca era legata a una convenzione di guerra, credo. In particolare, credo che si trattasse di un trattato stipulato all’Aja. Insomma non capisco perché oggi debbano accusare quell’ufficiale che in fondo faceva il suo dovere di soldato e probabilmente nient’altro». L’ufficiale in questione era Erich Priebke, che sta scontando l’ergastolo per i crimini commessi alle Ardeatine.

Edda Mussolini, vedova Ciano, una delle cinque figlie di Benito (da http://www.vocidicitta.it/societas/comera-papa-mussolini-i-racconti-della-figlia-edda/)

Nessuno stupore che la figlia del duce la pensasse in questo modo. È incomprensibile invece che il giornalista non le facesse rilevare che le cose da lei dette erano assolutamente false.

In primo luogo perché i tedeschi non affissero alcun manifesto. In secondo luogo perché non rivolsero alcun invito a consegnarsi agli autori dell’azione di Via Rasella. In terzo luogo perché la rappresaglia nei confronti della popolazione civile non è mai stata contemplata da nessuna convenzione internazionale, se non in circostanze particolarissime.

Ma il castello di menzogne costruito attorno ai fatti del marzo 1944 è duro a morire. Abbiamo già detto che il comunicato della “Stefani” riprodotto in apertura costituì la prima notizia sull’azione partigiana e sulla rappresaglia. A cose fatte, come diceva chiaramente la nota.

Le risultanze processuali

Albert Kesselring (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/0f/Bundesarchiv_Bild_183-R93434%2C_Albert_Kesselring.jpg)

Lo stesso Kesselring, comandante delle forze tedesche in Italia, che rientrò a Roma alle sette di sera del 23 marzo dal fronte di Anzio, messo al corrente, dopo essersi consultato ripetutamente con Berlino, emanò l’ordine: «Uccidete dieci italiani per ogni tedesco. Esecuzione immediata». Questa affermazione fu fatta in sede processuale e ripetutamente ribadita: «Domanda della corte: faceste qualche appello alla popolazione romana o ai responsabili dell’attentato prima di ordinare le rappresaglie? Kesselring: Prima no. Domanda: avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nelle proporzioni di uno a dieci? Kesselring: no. […] Domanda: ma voi avreste potuto dire: se la popolazione romana non consegna entro un dato termine il responsabile dell’attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso? Kesselring: ora, in tempi più tranquilli dopo tre anni passati, devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona. Domanda: ma non lo faceste? Kesselring: no, non lo feci».

Quest’ultima domanda della corte è molto importante. Infatti le convenzioni internazionali adombrano la possibilità di ritorsioni sulla popolazione civile soltanto nel caso sia dimostrato che la popolazione stessa è complice degli attentatori e rifiuta la loro consegna. Neppure questo remoto fumus può essere invocato per sostenere la legittimità della repressione.

Quindi, gli autori dell’azione di Via Rasella non ebbero alcuna possibilità di consegnarsi ai tedeschi. D’altra parte, si trattava di un’unità combattente che obbediva al CLN e al legittimo governo italiano, il quale aveva ordinato a «tutti gli italiani dei territori occupati, uomini e donne, di attaccare ovunque e dovunque il nemico invasore nazifascista».

Un’altra speculazione ignobile è quella relativa alla sfortunata circostanza che portò alla morte di un giovinetto in conseguenza dell’azione. I gappisti fecero di tutto, fino a mettere a rischio se stessi e l’esito dell’impresa, per allontanare alcuni ragazzini che giocavano a pallone e altri civili dal luogo dell’esplosione. Purtroppo, il ragazzo in questione sopraggiunse quando ormai era impossibile sia avvertirlo sia fermare l’esplosione.

Un sacerdote sulla via Ardeatina

Padre Libero Raganella era stato contattato da uomini della Resistenza ed invitato a recarsi verso Porta San Sebastiano, poi sull’Ardeatina dove stava accadendo qualcosa di strano. Ecco cosa scrisse nel suo diario: «Le raffiche di mitra ora si sentono a breve distanza, ad intervalli, unite a grida disperate e strazianti. L’SS mi è ormai di fronte e in un italiano quasi perfetto (capisco subito che è uno dell’Alto Adige che ha optato per la grande Germania) mi fa notare che è proibito proseguire per quella strada o sostare, essendovi in corso un’azione di guerra. Mentre parla, più che ascoltare lui ascolto le mitragliatrici che a brevi intervalli scattano in canto rabbioso, e tra quel fragore infernale più distinte e chiare le urla, i lamenti ed ogni verso umano, ma reso disumano dal terrore. Come in sogno afferro la tragedia. “Là stanno morendo. Io sono sacerdote, vorrei assisterli, benedirli” riesco a dire con un filo di voce. “Non è possibile, nessuno può passare. E se pure io la facessi passare – dice quello, voltandosi e accennando agli altri soldati – lei non tornerebbe indietro e noi faremmo la stessa fine di quelli là dentro. Vada via. Vada via subito prima che sia troppo tardi”».

Herbert Kappler

L’allucinante sequenza delle fucilazioni era stata studiata con grande zelo da Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma: «Calcolai quanti minuti erano necessari per la fucilazione d’ognuna delle trecentoventi vittime (che poi diventarono, nella concitazione dei calcoli e delle liste, 335, 5 in più rispetto alla stessa proporzione di uno a dieci – nota nostra). Calcolai anche le armi e le munizioni necessarie. Cercai di rendermi conto di quanto tempo avessi a mia disposizione. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solamente un colpo, specificando che la pallottola doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea».

«Un certo Montezemolo»

Joseph Raider, un disertore austriaco che riuscì a scappare nella confusione e che, riconosciuto, fu risparmiato, ha così descritto uno dei momenti più toccanti: «Di fronte c’era un colonnello, credo un certo Montezemolo, dal volto già gonfio per le percosse e i colpi ricevuti, con un’enorme borsa sotto l’occhio destro, il cui aspetto stanco, ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze. Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assaliti dal terrore o colti da improvvisa pazzia. In mezzo al frastuono udii esclamare una voce mesta e supplichevole: “Padre, benediteci!”. In quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio perché don Pietro (Pappagallo, altra vittima delle Ardeatine – nota nostra) riuscì a liberarsi dai suoi vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua paterna benedizione!».

L’imbocco delle Cave

Il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo era alla testa del Fronte Militare Clandestino filomonarchico.

Alle 20 del 24 marzo il massacro era concluso e i tedeschi, come sempre in preda all’ossessione della segretezza, fecero esplodere gli imbocchi delle Cave.

 

Il provvidenziale intervento dei fascisti

Nulla fecero per tentare di dissuadere i nazisti e di evitare la strage di tanti innocenti le autorità della repubblica sociale. Anzi collaborarono pienamente. Il questore Pietro Caruso, al quale i nazisti avevano chiesto 50 nomi da inserire nella lista delle persone da giustiziare si rivolse al ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi. Ecco il suo resoconto: «Kappler pretende da me 50 prigionieri da far fucilare per rappresaglia. Cosa devo fare? Mi rimetto a voi, Eccellenza. Speravo che il ministro volesse trattare direttamente con Kappler. Lui mi rispose: “Che posso fare? Sei costretto a darglieli. Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Sì, sì, dateglieli!”. Avendo ottenuto l’autorizzazione, o per meglio dire l’ordine, mi sentii sollevato». Questo era il comportamento dei rappresentanti di quella repubblica che, si sostiene da taluno, sarebbe stata creata per limitare i danni che i tedeschi potevano causare alla popolazione italiana.

Nulla seppero le famiglie delle vittime. Le prime notizie furono date a partire dal 9, 10 aprile, con lettere scritte in tedesco, in cui ci si limitava a dire che il loro congiunto era morto. Giovanni Gigliozzi ricorda che la moglie del cugino Romolo portò per un mese il pranzo al marito a Regina Coeli, senza che nessuno le dicesse nulla. Anzi, «Un gentile soldato tedesco assicurava che glielo avrebbe consegnato».

Le vittime di quella tremenda giornata furono 336. Fedele Rasa, una popolana di 74 anni, fu uccisa mentre raccoglieva erba sul prato di Via delle Sette Chiese, vicina all’Ardeatina. Forse le fu fatale la sordità per non aver risposto all’intimazione di un soldato tedesco.

«La capitale che ci ha dato più filo da torcere»

Non vogliamo soffermarci sull’orrore della scoperta dell’eccidio e sulle sue modalità.

Heinrich Himmler, già capo delle SS e della Gestapo, poi comandante dell’intera attività di polizia, politica e segreta del Reich, poi ministro dell’Interno; alle sue spalle Eugen Dollmann (da https://it.pinterest.com/pin/478014947942133018/)

L’enormità dell’accaduto creò problemi anche al CLN, nell’ambito del quale si svolse un dibattito piuttosto acceso. Ma, in conclusione, tutti i contrasti furono superati e lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale assunse piena responsabilità per l’azione di Via Rasella con l’approvazione di questo documento: «Italiani e italiane, un delitto senza nome è stato commesso nella vostra capitale. Sotto il pretesto di una rappresaglia per un atto di guerra di patrioti italiani, in cui esso aveva perso trentadue dei suoi SS, il nemico ha massacrato trecentoventi innocenti, strappandoli dal carcere dove languivano da mesi. Uomini di non altro colpevoli che di amare la patria – ma nessuno dei quali aveva parte alcuna né diretta né indiretta in quell’atto – sono stati uccisi il 24 marzo 1944 senza forma alcuna di processo, senza assistenza religiosa né conforto di familiari: non giustiziati ma assassinati.

Roma è inorridita per questa strage senza esempio. Essa insorge in nome dell’umanità e condanna all’esecrazione gli assassini come i loro complici e alleati. Ma Roma sarà vendicata. L’eccidio che si è consumato nelle sue mura è l’estrema reazione della belva ferita che si sente vicina a cadere. Le forze armate di tutti i popoli liberi sono in marcia da tutti i continenti per darle l’ultimo colpo. Quando il mostro sarà abbattuto e Roma sarà al sicuro da ogni ritorno barbarico essa celebrerà sulle tombe dei suoi martiri la sua liberazione.

Italiani e italiane, il sangue dei martiri non può scorrere invano. Dalla fossa ove i corpi di trecentoventi – di ogni classe sociale, di ogni credo politico – giacciono affratellati per sempre nel sacrificio si leva un incitamento solenne a ciascuno di voi. Tutto per la liberazione della patria dall’invasione nazista!

Tutto per la ricostruzione di un’Italia degna dei suoi figli caduti!».

Come si vede, ancora non si conosceva neppure l’esatta entità del massacro.

È in rapporto soprattutto con questi drammatici eventi che Eugen Dollmann, il raffinato rappresentante di Himmler in Italia, ha lasciato scritto: «Roma è stata la capitale che ci ha dato più filo da torcere».

Lucio Cecchini , direttore di Patria Indipendente dal 2001 al 2004 (anno della sua morte)

 (da Patria Indipendente n. 2 del 22 febbraio 2004)