Elenora Bordonaro

M’addumu s’iddu cantu, sentu tuttu e sugnu sarva
nenti mi truzza nenti mi struppia.
Eleonora Bordonaro, Vuci

 

Mi accendo quando canto, sento tutto e sono salva, niente mi sfiora niente mi ferisce, canta Eleonora Bordonaro nel brano Vuci dall’album Cuttuni e lamé. Trame streuse di una cantastorie in cui racconta di sé attraverso la sua voce: piena, leggera, fredda e cristallina, arrabbiata, squillante, soffocata, spalancata, tagliente, affilata, precisa e netta, invecchiata troppo presto, solida, con la quale può raccontare senza parole ciò che è difficile da spiegare. L’eclettismo vocale è certamente tra le peculiarità che distinguono la paternese Eleonora Bordonaro, compositrice, cantautrice, ricercatrice e studiosa, interprete della canzone folk siciliana, ma anche esperta di altre culture musicali, di cui si è nutrita soprattutto agli inizi della sua carriera, cantando il jazz, il rock, la bossa nova, reminiscenze che riaffiorano nelle sue composizioni. Una storia artistica insolita. Nel percorso che intraprende nella musica si riconoscono diverse tappe e quella di partenza non è la più ovvia. Un lungo viaggio c’è voluto prima di giungere alle radici, alla scuola etnea, con la tradizione dei cantastorie, a cui è legata anche per ragioni familiari. Questa realtà infatti, è stata per lungo tempo dimenticata, da lei, dalla sua famiglia e dal territorio nel quale è cresciuta.

Nata a Paternò, venti chilometri da Catania, nel 2014 Eleonora Bordonaro ha contribuito alla fondazione della Casa Museo del Cantastorie di Paternò, inaugurata nei locali del Piccolo Teatro, in via Monastero, centro di produzione e creazione dell’arte con una esposizione permanente dedicata ai cantori popolari della famosa scuola etnea. Quest’iniziativa, dopo lungo oblio, ha portato a un vasto pubblico la qualità artistica del cantastorie che era stata completamente abbandonata. Non solo perché non esistevano più i cantastorie, ma perché non vi era nemmeno più la memoria. Invece, Ciccio Busacca e Ciccio Rinzino sono stati i protagonisti di una storica tradizione, un’arte autoctona dalla valenza universale. Erano musicisti popolari, ma professionalizzati, che si esibivano per le strade dei paesi siciliani, vincendo tutti i concorsi da cantastorie. Si narra che a un certo punto non li volessero più invitare perché vincevano sempre i primi posti. Erano poeti ambulanti, intrattenitori che giravano i villaggi recitando composizioni poetiche originali o raccontando fatti di cronaca, opere di fantasia o storie realmente accadute. Si accompagnavano con la chitarra, con l’organetto, in un avvicendamento tra canto e recitato.

Ciccio Rinzino, cantastorie, nome d’arte di Francesco Paparo

Ciccio Rinzino è l’anello di una catena che ha unito Bordonaro al folk ed è lei a tracciarne le vicissitudini in più interviste rilasciate a chi scrive (Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Interno4edizioni; Grand Bazaar, Radiotelevisione Svizzera). Nome d’arte di Francesco Paparo, era cugino primo del padre, dunque uno zio. Per lungo tempo in famiglia si è cercato di tenere nascosto questo personaggio, come qualcosa di cui vergognarsi. Perché Ciccio Rinzino si metteva in piazza con il suo spettacolo come un mendicante che chiede l’elemosina. Si sedeva sui tetti delle macchine, tirava fuori un cartellone, un microfono, la chitarra e cantava canzoni lunghissime che intrattenevano per ore. Per la buona società, un’attività disonorevole. Del resto, sono molti gli artisti popolari che hanno subito forme di censura, di allontanamento, di marginalizzazione perché vivevano in condizioni di abbandono, o perché cantavano fatti sconvenienti, storie di miseria, di degrado e di abusi, storie di cui era meglio tacere.

Il cantastorie Orazio Strano

Invece Ciccio Rinzino non si è mai vergognato e ha rappresentato un esempio di costanza e determinazione, affrontando il suo desiderio fino a concretizzarlo. Rimasto affascinato dagli spettacoli di Orazio Strano, considerato il padre dei cantastorie, che allora si fermava spesso nelle piazze di Paternò, a trentasette anni, nel 1959, dopo aver messo al mondo nove figli, decise di fare solo il musicista e in quel momento gli venne un lampo di genio. Accorgendosi che con le proprie forze poteva intrattenere solo una piazza al giorno, per incrementare gli affari si mise a insegnare le sue storie ad altri. Li mandava in giro per diverse località, su un’auto con la scritta Ditta Ciccio Rinzino, e poi si faceva pagare la percentuale. Aveva creato un franchising dei cantastorie. Nei suoi spettacoli utilizzava un cartellone, cioè un supporto visivo che serviva a mostrare la storia che raccontava. Si accompagnava alla chitarra mentre cantava una strofa di sua composizione, poi ne spiegava il significato in prosa, indicando il riquadro del cartellone o mimando con gesti. Nel finale chiudeva in leggerezza con una o due barzilletti, ovvero brevi componimenti divertenti.

La canzone Sentimi Rosa, incisa in Cuttuni e lamé. Trame streuse di una canta storie (2017, Finisterre), primo album solista di Bordonaro, nasce dal testo di Ciccio Rinzino, consegnatole dai figli dopo la sua morte, sulla musica di Puccio Castrogiovanni, compositore e fondatore dell’Orchestra dei Lautari, tra i massimi esperti ed esecutori di strumenti tipici come il marranzano. La poesia racconta di un amore passionale che oggi possiamo definire malato: se non ti ho, ti uccido e poi mi ammazzo. È un testo che esprime la scala di valori che esisteva nel passato (neanche lontanissimo) di questa Sicilia retrograda, in cui l’amore si concepiva come forma di possesso, secondo una concezione maschilista che considerava la donna una proprietà, un oggetto da sopprimere se questo serviva all’uomo per riabilitarsi e riaffermare l’onore tradito.

Bordonaro canta e suona accompagnandosi con la chitarra: Ascolta Rosa, parola d’onore /Sono sincere queste mie parole/Tu sei l’amore mio, l’unico fiore/Che mi sia sbocciato nel cuore/Se non potrò averti come mia sposa/Ti ucciderò e mi ucciderò dopo di te!

Sentimi Rosa è il primo brano dell’album che, tradotto in cotone e lamé, trame bizzarre di una canta storie, già nel titolo si appropria della storia paternese dell’autrice che dichiara, inoltre, l’idea contenuta nelle tredici tracce. Quella di narrare per contrasti, costruendo un percorso di evoluzione: se i primi brani muovono dal racconto di uomini che descrivono le donne siciliane, a partire dai testi della tradizione popolare, con tutti gli stereotipi negativi possibili (La tassa de li schetti, dove la donna è considerata una adescatrice, L’fomni in cui le donne sono definite canaglie, mala razza, pessime, indocili, balorde, la rovina degli uomini dai tempi delle Sacre Scritture), si finisce per raccontare dal punto di vista delle donne, quello dell’autrice che ritrova se stessa e la sua terra. Intrisa di materiale lavico, di sterpaglie e piante, ma culla che rassicura. Così appare nell’intensissimo Ucch’i l’arma: Nella tua bocca ci sono io, sola e coccolata /leggera, curiosa, calda e confortata. /Nella tua bocca ci sono io serena e felice/e il vento del tuo respiro mi insegna la strada./Dalla bocca all’anima mi insegna la strada.

Altro grande protagonista della scuola etnea è Francesco Busacca, più conosciuto come Ciccio o Cicciu Busacca (Paternò, 15 febbraio 1925 – Busto Arsizio, 11 settembre 1989), cantastorie e chitarrista cresciuto artisticamente a Paternò, ascoltando i versi dei cantastorie ambulanti, come Paolo Garofalo e Gaetano Grasso, Orazio Strano. Busacca realizza una carriera importante che lo conduce fuori dalla Sicilia. Debutta nel 1951, nella piazza di San Cataldo, provincia di Caltanissetta con la rappresentazione di L’assassinio di Raddusa, tratto da una storia di cronaca accaduta nel paese di Raddusa, area metropolitana di Catania. Una sedicenne, emarginata dai paesani per aver subito violenza, giurò che si sarebbe vendicata. Resasi irriconoscibile, aveva avvicinato l’uomo che l’aveva abusata e nella piazza del paese gli aveva sparato uccidendolo. Il racconto di Busacca tenne viva la memoria di una tale tragica vicenda.

Nel 1956 Busacca è in scena al Piccolo Teatro di Milano con il recital Pupi e cantastorie di Sicilia. Fondamentale l’incontro con il poeta Ignazio Buttitta, poeta dialettale di Bagheria (Palermo) di cui mette in musica e interpreta molte poesie. Dai suoi scritti nel 1965 pubblica Cosa è la mafia? (DNG). Canta i briganti, di uomini uccisi dalla mafia, storie di vendetta e di violenza, ma anche storie epiche di Orlando e Rinaldo paladini di Francia (Opera dei Pupi) storie di emigrazione, storie del Sud. Negli anni Settanta partecipa allo spettacolo teatrale Ci ragiono e canto, regia di Dario Fo e a diversi programmi televisivi e radiofonici. Con la diffusione di massa dei televisori la funzione a la popolarità dei cantastorie andò in declino. I fatti di cronaca circolavano senza più la mediazione di questi cantori, relitti di una tradizione millenaria.

Tra le interpretazioni più leggendarie vi è il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevale dal testo di Ignazio Buttitta.

Autrice degli album incisi per Finisterre Cuttuni e lamé. Trame streuse di una canta storie (2017), Moviti ferma (2020) e del recente Roda (marzo 2024), nella produzione artistica di Eleonora Bordonaro trova spazio una straordinaria ricerca linguistica, oltre che sonora e tematica. Alla base vi è l’interesse per le varietà di cui si compone la poesia popolare siciliana, ricchissima di frammenti del passato, espressione delle diverse lingue minoritarie che si sono formate nell’isola. Bordonaro mette in musica, per esempio, la poesia popolare antica di Lionardo Vigo, recuperata attraverso la lettura e lo studio della principale opera di questo poeta, filologo, intellettuale di Acireale, (Lionardo Vigo Calanna 1799-1879), ovvero la Raccolta di canti popolari siciliani, pubblicata nel 1857 per conservare e divulgare la tradizione orale del popolo di Sicilia. La raccolta include diversi canti provenienti da Nicosia, San Fratello e altri paesi (Aidone, Sperlinga, Montalbano Elicona), dove le comunità si comprendevano attraverso il dialetto gallo-italico. Chiamato anche lombardo di Sicilia, nacque esattamente al centro dell’isola, quando i Normanni (popolo di origine scandinava, insediatosi poi nella Francia occidentale, la Normandia, votato alla conquista di vasti territori in Europa) vi si stabilirono a partire dal 1061 e portarono coloni (soprattutto soldati a difesa del territorio) provenienti dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Lombardia, dalla Provenza. Serviva una lingua che mettesse in comunicazione queste genti che appartenevano a territori diversi. Oggi è patrimonio della comunità ristrettissima di San Fratello che lo mantiene in vita molto orgogliosamente. Bordonaro, attraverso meticoloso studio e appassionate ricerche, se ne fa divulgatrice.

Dall’album Moviti ferma si può ascoltare I dijevu di Vurchean (I diavoli dell’isola di Vulcano), un antico canto di protesta sociale. La melodia è quella di Negrume da Noite di Paulinho Do Reco, un classico del repertorio di Bahia. Il testo, di autore anonimo in gallo italico, è ripreso dalla raccolta di Lionardo Vigo. Ma c’è anche un intervento di Bordonaro che ha coinvolto un siciliano autentico che potesse incarnare le tematiche della canzone: il sentimento di orgoglio, la lotta di classe, la protesta sociale. Nel testo originale queste istanze erano legate a una fantasia tipica dei sanfratellani originari, che erano allevatori, legati alla terra, al bosco, per i quali il mare era sempre visto come un ostacolo, un luogo pieno di pericoli, e nel vulcano, che vedevano spuntare dall’arcipelago delle Eolie, immaginavano vivessero dei diavoli. A loro si rivolgevano perché cacciassero dalla loro terra i ricchi e prepotenti che sfruttavano chi viveva in miseria. A Catania c’è lo storico locale Saro Nievski, un luogo in cui da sempre si raduna la Catania più creativa e consapevole, gestito da un personaggio iconico, che ormai si identifica con il nome del locale, un punto di riferimento per tutta la comunità. Da sempre a difesa degli ultimi, paladino dei più fragili, è lui ad aver aggiunto una serie di riflessioni, poi sintetizzate dall’autrice in un testo che è diventato esempio di contaminazione tra poesia antica e di oggi.

La musica è opera di Sambazita (orchestra itinerante catanese formata da strumenti a percussione tipici delle Baterie di Samba) e dalla Piccola Orchestra Giovanile dell’Etna Jacarànda, un’orchestra di giovani musicisti che propone canzoni originali in siciliano, per una nuova musica popolare contemporanea. Vanta numerose collaborazioni e progetti tra cui nel 2019 quello con l’Istituto Penale per i Minorenni di Acireale (CT) sostenuto da Fondazione Treccani.

Un giorno il cuculo, il picchio e il gufo cantarono./Ma i ricchi che felicità ne hanno se i poveri sono tristi? Che li prendessero i diavoli di Vulcano /e li bastonassero con la mazza. /Non sono tutte uguali le barche in mezzo al mare, non è uguale la voglia di remare. /C’è chi pesca e chi prende il sole, c’è chi tira pane solo per campare./Per tutti il sole spuntò/e per la brama di pochi si spense./Per tutti il sole spuntò per la brama dei potenti si consumò.

La raccolta di Vigo, oltre alle poesie in siciliano autentico e in gallo-italico, ne raccoglie numerose in arbëreshë, la lingua degli albanesi che si insediarono in Sicilia nel XVI secolo. Fuggendo dalla loro terra in seguito alla morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderberg, che li guidò alla ribellione contro l’occupazione dell’Albania da parte dei turco-ottomani, sostarono in alcune zone dell’area di Palermo, come Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela. Luoghi in cui quel popolo mise radici.

La raccolta di Vigo è, dunque, un punto di riferimento basilare che ha messo in luce e che ancora oggi ci permette di apprezzare, la grande varietà di parlate della Sicilia. Attraverso la riproposta di questi testi Bordonaro porta avanti la scelta coraggiosa di fare del canto lo strumento per la salvaguardia di un patrimonio linguistico e culturale in via di sparizione. Che va protetto, condiviso, accolto e valorizzato. La sua voce, in questa Italia spesso intollerante e divisa, insegna la bellezza delle contaminazioni e il valore della diversità, della multiculturalità, del multilinguismo.

Auditorium Parco della Musica, Roma

In lingua arbëreshë si può ascoltare Kёndime pёr të ljert’e Krishtit, canto di Natale tratto dal capitolo dei canti greco albanesi di Lionardo Vigo. Per accedere alla comprensione di questo testo la cantautrice catanese ha cercato dei parlanti contemporanei di Piana degli Albanesi (città metropolitana di Palermo) che oggi conservano una lingua che si avvicina molto a quella originaria. Il testo, dunque, è il risultato della trascrizione dall’oralità da non parlanti originari, con tutte le peculiarità e le problematiche della traslitterazione, le difficoltà del recupero di lingue minoritarie, delle quali si stanno perdendo le radici. Questo lavoro porta dunque con sé il carattere dell’eccezionalità. Il canto è eseguito durante un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, nel gennaio 2013.  Nella registrazione, l’introduzione è di Ambrogio Sparagna, etnomusicologo, allievo di Diego Carpitella, fondatore nel 1976 a Roma della prima scuola italiana di musica popolare contadina, presso il Circolo Gianni Bosio. Organettista, grande divulgatore, direttore dell’Orchestra Popolare Italiana, un monumento della musica popolare, che ha avuto un ruolo importante nella carriera di Eleonora Bordonaro. È lui a spiegare le particolarità della lingua.

Che portento è mai questo?/La notte si è fatta giorno/Ti gode l’animo/L’inverno è passato, non è più/Tutto il mondo ha fatto festa/sputan fiori e frutta su la terra/Gran cosa è questa/Ch’io non so né dire né raccontare/Iddio si è fatto uomo/Il cielo e la terra han fatto delle meraviglie/Perché ci è nato in una grotta/ Apportandoci la santa vita/È nato a cielo scoperto e non in città/È nato in una spelonca/Nel gelo e nella neve/Fu avvolto in un panno/in mezzo alla paglia ed al fieno/Come povero per me/Nato tra quei monti/Tra quei monti remoti/Il Paradiso di allegria suonò/E tu di gaudio all’uomo/Pace, gioia, riso e allegria/Il Signore portò in questa terra

Gli esordi di Bordonaro sono lontani dalle sue radici e anche dalla sua terra, interprete di musica rock, jazz, bossa nova nei club di Milano. L’incontro della svolta avviene all’Auditorium Parco della Musica a Roma, dove proprio Ambrogio Sparagna, sentendola cantare la invita a riflettere sul motivo per cui, con le sue radici inconfondibili – il suo modo di parlare, i suoi riferimenti culturali, la sua immagine – continuasse a raccontare un mondo che non era il suo, incoraggiandola dunque a rivolgere il suo interesse verso quello di appartenenza. Da qui, dopo attenta riflessione, la connessione con il siciliano. Un siciliano autentico, non contaminato. E il recupero della tradizione popolare, non come ricopiatura, ma come reinterpretazione e rilettura personale.

Questo approccio si può apprezzare in canti come Disidiru mangiari jancu pani da Cuttuni e lamé. Trame streuse di una cantastorie. Il testo tradizionale tratto dalla Raccolta di canti popolari siciliani di Lionardo Vigo, poggia su una musica composta dalla cantautrice catanese, ed è la rielaborazione di una melodia antica, il canto di uno zolfataro. Qui la voce è in dialogo con il marranzano, strumento tradizionale usato come una percussione a creare un’atmosfera rarefatta, scandita da un ritmo di trance. Una proposta totalmente inedita, innovativa di reinterpretazione di repertori tradizionali.

Desidero mangiare pane bianco /e non ne mangio per troppa bianchezza./Desidero acqua di fresche fontane /e non ne bevo per troppa freschezza./Delle montagne vorrei fare pianure /e delle pianure poi farne vette./Mi segua chi vuole seguirmi/la donna è vana e incoerente.

E poi c’è Rosa Balistreri. Per le interpreti siciliane la folksinger di Licata rappresenta il punto di riferimento obbligato. Cantastorie, interprete caparbia, artista gigantesca, che ha aperto la strada affinché la canzone siciliana diventasse nota al mondo, che svolse ricerche sui canti della tradizione negli anni del folk revival, ma che soprattutto diede voce a temi davvero scabrosi, proibiti, appoggiandosi spesso alle poesie di Ignazio Buttitta. Cantò storie di mafia, di corruzione nella Chiesa e nello Stato, di donne abusate e sfruttate, di emigrazione, di carcerati ingiustamente, delle grandi differenze sociali, restituendo l’immagine veritiera di una Sicilia retriva, abbandonata alla miseria e all’ignoranza, dalla quale si affrancò attraverso la musica e il canto. Una figura che si pone come un baluardo e per certi versi la sua presenza così totalizzante, quasi ingombrante, potrebbe essere percepita come un limite. Che va oltrepassato se non si vuole ridursi a esserne una copia carbone.

Nell’album del 2012 realizzato con il Majari Trio, La custodia del fuoco (Headache Production), Bordonaro si muove alla ricerca di una propria identità. Vi sono interpretazioni di canti che hanno reso celebre Rosa Balistreri, come Terra ca nun senti, ma sono resi rispettano la sensibilità e la natura musicale dell’artista catanese che soprattutto all’esordio ha le sue basi nel jazz, nella bossa nova.

Nel primo album solista Cuttuni lamé. Trame streuse di una canta storie vi è, invece, un richiamo alla Balistreri ricercatrice. Come lei anche Bordonaro recupera canti della tradizione popolare e li ripropone. Il suo Maria passa pii na strata nova, per esempio, è un canto della tradizione interpretato anche dalla Balistreri, Passa Maria seppure in una versione differente (ve ne sono innumerevoli, il canto è molto diffuso in Sicilia) che Bordonaro recupera attraverso una fonte piuttosto autorevole: la registrazione di Alan Lomax e Diego Carpitella a Sommatino (Caltanissetta), nel 1954, da un contadino che intonò il canto di mietitura U métiri, poi inserito nella raccolta Italian Treasury Sicily. Utilizzato, infatti, anche come canto di lavoro, il testo è parte di una composizione più ampia chiamata Lamientu oppure Passiu Santu, noto come Canto di Passione.

Maria passa pii na strata nova è restituito da Bordonaro con voce sola, a rendere con estrema cura e nitore la forza e l’autenticità di questo reperto.

Maria passa per una strada nuova /La porta di un fabbro è aperta./“O caro maestro, che fate a quest’ora?”/“Faccio una lancia e tre chiodi pungenti /“O caro mastro, non lo fate /vi pagherò comunque il lavoro”/“O cara donna, non lo posso fare/altrimenti mi metteranno al posto di Gesù”/“O caro mastro, mi dai notizie,/Dov’è il figlio amato di Maria?/O cara donna, se lo volete trovare/È lo stesso sangue che vi insegna la strada.

“O Figlio scendi da questa croce /che c’è la tua mamma a difenderti”/“O cara Mamma, beneditemi e andate via, /c’è la Santa Croce a difendermi”/“Chiamatemi Giovanni, /ne ho bisogno perché mi dia qualche consiglio./Mi porti uno scialle nero, /ora credo che mio figlio sia morto”.  E l’acqua del mare si trasformò in olio/rispettate il Venerdì di mio Figlio/E per due volte è passato il Dio che ci ha creati./In ogni luogo si allontana l’inferno e trionfa Maria./E per due volte sia lodato, quando passa Gesù, pensa a Maria!

Rosa Balistreri si è sedimentata, la sua musica, il suo mondo sono stati l’occasione per apprendere la tradizione, per capire l’importanza della ricerca, ma anche per produrre composizioni originali. Con il secondo disco Moviti ferma emerge la Bordonaro autrice, che rivela una propria poetica distintiva. Il titolo dell’album è la conferma di un forte legame con la sua terra: moviti ferma è un ossimoro, espressione tipica paternese difficilmente traducibile. È condizione propria di chi abita quel territorio, e ha a che fare col desiderio di muoversi ma restando fermi, o il contrario: restare immobili ma immaginarsi lontano. Tipica di chi pensa che emigrare basti a sentirsi liberi. Liberi da una terra che ha sempre offerto poco costringendo alla fuga per sopravvivere. Ma libertà significa poter andare e tornare, senza remore e sensi di colpa.

I Lautari

Ai testi tradizionali si aggiungono quelli originali che si innestano su una musica che mescola suoni antichi e contemporanei. Il mondo musicale dell’artista si fa variegato e gli strumenti tipici si combinano con l’elettronica più audace; la voce può essere la sola protagonista oppure è sostenuta da un’orchestra composita e musicalmente sfaccettata come quella dei Lautari, rinnovatori della tradizione folk siciliana. Ma sono tanti i musicisti artigiani che hanno intessuto di note i testi dell’album. A partire da Cesare Basile, narratore degli ultimi, che ha fuso il blues, la musica africana e il cantautorato in un siciliano autentico, Michele Musarra che mescola musica popolare, trance e reggae, Agostino Tilotta, anima degli Uzeda, storica noise band catanese. E poi le orchestre giovani, Sambazita e Jacaranda Piccola Orchestra Popolare dell’Etna. Fabrizio Puglisi e Giovanni Arena, hanno invece tradotto melodie popolari in versioni jazz di un tempo presente.

Moviti ferma, brano che dà il titolo all’album, testo di Eleonora Bordonaro e Giovanni Calcagno, musica di Puccio Castrogiovanni, Michele Musarra, è il racconto personale, intimo dell’autrice che riflette sulla sua terra, nella solitudine, nell’immobilità del corpo che facilita la vivacità del pensiero, combattuta tra la voglia di restare e il sogno di andarsene. Ferma /resto ferma/non ho gambe/non ho braccia./Solo la faccia è viva /piombo sulle spalle /e catene sulla schiena. /Accovacciata sulla spiaggia /sono onda che non sbatte;/conficcata nel mondo /radice che/non cresce,/sotterrata al buio/seme che non germoglia,/nascosta in un angolo /mi faccio ombra da sola.

Tra le dieci tracce dell’album trovano spazio vividi ritratti di donne. Un universo femminile sempre in fermento, che Bordonaro descrive non più solo attraverso le parole della poesia popolare di Lionardo Vigo, ma anche mediante il suo personale sguardo di donna di oggi, che osserva ciò che la circonda, la sua Sicilia scossa da millenarie sottomissioni, terra arida e sorda più che vitale e agitata dal mare. Si impongono donne che cantano la loro rivalsa, il momento di essere protagoniste; donne che vogliono abbattere quel soffitto di cristallo che le schiaccia sempre più in basso e non permette loro di sollevare la testa. Ma anche donne dedite alle tradizioni, alle processioni antiche, ai rituali sempre identici, che si debbono compiere in perpetuo, perché le donne sono essenziali e ciò che fanno dà senso al mondo. Donne di ieri e di oggi che, nella voce di Bordonaro, trovano megafono alle tante battaglie da combattere per una società più egualitaria, per una parità di genere ancora lontana da venire.

Sprajammu di la luna (Siamo sbarcate dalla luna) è un vero e proprio canto femminista di lotta e di rivalsa, scritto insieme a Marinella Fiume, ex sindaca di Fiumefreddo (Catania) che ha studiato e approfondito vicende di donne siciliane del passato poco conosciute, ma forti e determinate, sottraendole all’oblio. Un universo femminile riemerso, di saperi e valori antichi.

Brano che esplicita la poetica di Bordonaro e una delle idee compositive più forti. Quella di prendere le melodie scarne del passato e riadattarle per creare un filo di continuità tra passato e presente. Sprajammu di la luna ha la classica melodia di sdegno dei canti d’amore, dove l’uomo si presenta a chiedere la mano di una donna, ma di fronte al suo rifiuto ne rimane deluso e il canto diventa di umiliazione verso colei che ha osato così tanto. Questa stessa melodia viene invece utilizzata per raccontare una storia completamente diversa, opposta, in cui sono le donne che rivendicano con forza la propria autonomia e indipendenza. Quella melodia di sdegno è diventata un canto di lotta, una danza haka di incoraggiamento per donne che vogliono farsi rispettare.

Siamo arrivate qua ascoltateci/per mostrarvi ciò che non vedete./Siamo più furbe di quanto pensiate/per troppo tempo docili e sottomesse./Sottomesse per amore della pace/e vessate da questi quattro stolti/adesso che avete rovinato il mondo/per favore fatevi da parte./Siamo arrivate anche da lontano/consegnamo alla terra senno e sostanza./Con gli occhi al cielo guardiamo lontano,/piedi nel fango e coltello in mano./Siamo sbarcate con la luce della luna/femmina, nuova piena e calante/e come lei lucenti e cangianti/originali, sconfinate e fuori dagli schemi./

Il necessario riscatto delle donne deve partire anche da loro. A loro deve essere insegnato, già da bambine, il valore dell’imperfezione, invece dell’ossessione per la perfezione, che produce solo insicurezza. Meno presente nel mondo maschile dove gli uomini, educati a essere coraggiosi, non hanno bisogno di essere impeccabili per gettarsi in un’impresa. A merca (Il bersaglio) racconta la diversa attitudine tra uomini e donne di fronte alla sfida. A Milano, un sabato pomeriggio, due amici e una gita al poligono di tiro. Ad accoglierli un vecchio cacciatore. Testo di Eleonora Bordonaro, musica di Eleonora Bordonaro e Puccio Castrogiovanni.

Tu ti divertivi e ti concentravi/e più ti scialavi più indovinavi./Io, quando avrei dovuto colpire, /mi sono confusa,/vergognata, mi sono arresa./Un colpo, fuori/due colpi fuori/tre colpi fuori/tu ridi, ti accendi sei a tuo agio./Sei stato allevato a scommesse. /Io, quando avrei dovuto riscuotere, ho perso./Con gli occhi ridendo parevi dire:/per vincere ci vuole pace, tonta!

In Ramu siccu si smonta lo stereotipo della donna che, decidendo di non avere figli, è considerata dalla società come incompleta e difettosa. Invece, la donna non ha bisogno di essere madre per realizzarsi e sentirsi abbastanza, è forza creatrice in termini assoluti, che può esprimersi, nella piena libertà dai condizionamenti, in altre manifestazioni creative come l’arte.

E poi c’è la Sicilia, terra di tradizioni, di riti che si ripetono, racconti di una terra che è anche comunità di donne. Menza Spogghia significa “mezza spoglia”, nuda, e l’espressione è riferita alla processione di donne che avanza verso il fiume, all’alba, per svuotare i vasi da notte. Una processione pagana, carnale, fisica. Un rito nutrito di solidarietà, necessità e resilienza. L’introduzione è recitata da Gaspare Balsamo, uno dei più famosi cuntisti siciliani. Suo è anche il testo e la musica composta con Bordonaro e Agostino Tilotta. Le amiche della madre di Bordonaro formano un coro affiatato e complice. Verso il fiume/o la grande fossa/fuori dal paese/la processione Femmina./All’alba e all’Ave /girando intorno/a camminare,/la processione./Ambulante /cantero di creta /latrina e vaso/la processione./Di mala voglia /e mezza spoglia /in una Via Crucis/la processione.

Ma soprattutto c’è San Fratello, protagonista del nuovo e recente lavoro discografico. “Ai margini del bosco dei Nebrodi, di fronte alle isole Eolie, un borgo di antica colonizzazione normanna, in cui si mescolano popolazioni delle regioni del Nord Italia – si legge nel booklet dell’album Roda – . Potrebbe essere paradigma di tutte le comunità delle aree interne per orgoglio di appartenenza, devozione alla tradizione, sapienza artigiana, fragilità idrogeologica, complessità sociale. Eppure è una roccaforte di originalità per peculiarità della lingua, superbo isolamento, unicum di tradizioni”.

Roda significa “lei” ed è dedicato alla figura di Adelasia del Vasto, di stirpe aleranica, originaria del Monferrato, che nel 1087 sposò a Mileto, in Calabria, il conte normanno Ruggero I di Sicilia, suggellando così un’alleanza tra popoli. Sbarcata in Sicilia, portò con sé un seguito di suoi conterranei liguri e piemontesi. Fu la prima avanguardia di un flusso migratorio che avrebbe determinato la costituzione delle colonie lombarde di Sicilia.Roda rappresenta una nuova svolta nella produzione artistica della cantautrice catanese perché nasce esclusivamente in dialetto gallo italico, oggi parlato da non più di 3500 persone, tra giovani, vecchi e bambini.

L’album presenta canti originali scritti in un idioma antico con il quale si racconta un rito che si celebra a San Fratello, immobile ed eterno, ovvero la Pasqua dei Giudei. Durante la Settimana Santa, dal mercoledì al venerdì santo, tra le strade del borgo fanno la loro comparsa musicisti, figuranti, acrobati, disturbatori dei riti sacri che impersonano gli uccisori di Cristo. Con le loro trombe suonano melodie militari, marce, danze, a ritmi e volumi esasperati proprio a intralciare e infastidire la passione di Cristo. Sono gli uomini del paese che in quel momento dell’anno possono vivere questa metamorfosi quasi carnevalesca, mascherati con costumi colorati, elmi, mantelli cuciti di paillettes o dipinti dalle donne. Oppure trasformati in animali, con pennacchi e code di cavallo. Con colori sgargianti ed elmetto in testa/colori sgargianti e maschera/ colori sgargianti e lingue di fuori/colori sgargianti e giubbe ricamate (Culaur sgargient). “Sono dispettosi, irriverenti, fastidiosi, burberi, irritanti talvolta, vanitosi, galanti, provocanti e seduttivi”. Dissacranti, ribelli, gioiscono accompagnando il passo mesto della processione funebre. Sodali, uniti, sono i sopravvissuti, quelli rimasti a tenere in vita un borgo la cui identità si afferma nella celebrazione perpetua del rito di rinascita. Amici, figli, padri, padrini e vicini che si trovano per strada/rintronano ogni cantone/condividono il pane/s’annegano nel vino (Amigs). Amici e fratelli che nella piccola comunità, sanno accogliere chi è più fragile (Ciro Zzirìan).

L’album si apre con Iermanimei, squillante evocazione di una festa che si svolge fuori dalle regole sociali, che evoca immagini avvincenti, di cerchi di fuoco, di cavalli e cavalieri bardati di vesti scintillanti.

Un’immagine che si è conficcata indelebilmente nella memoria di chi, emigrante, ha dovuto andarsene dal paese (Pinsier) e di chi soffre per la lontananza, perché questa terra è come una donna amata e perduta (La duntanänza).

In Giuriei, testo di Antonino Versaci da Chjièchjari a d’aumbra di Rracafart, traduzione di Benedetto Di Pietro, musica di Puccio Castrogiovanni ed Eleonora Bordonaro, il segreto dei Giudei viene svelato: La Settimana di Passione del nostro paese a tanta gente sembra una carnevalata, con questi Giudei/che suonano e fanno fracasso da quando spunta il sole fino a sera. A vedere questi trombettieri che/suonano motivetti dietro alla processione del Venerdì con quei cappucci e le giubbe ricamate,/tutti i forestieri restano sbalorditi. E dicono che non esiste un altro luogo dove, invece di piangere/e pregare, nei giorni della Passione di Gesù Cristo, sembra che si festeggi il Carnevale./Ma siccome non conoscono la verità, dobbiamo informarli su come stanno le cose per mettere fine/a menzogne e cattiverie: Gesù fu messo in croce il Venerdì e nessuno al mondo poteva immaginare/che il terzo giorno sarebbe resuscitato. Ma questa bella notizia ai Sanfratellani qualcuno la confidò/due giorni prima e il Mercoledì riempirono le strade di Giudei che, non avendo avuto la pazienza/di aspettare, anticiparono la Pasqua mettendosi a saltellare e strombettare per la gioia che resuscitava/il Padreterno. E quindi le sonate dei Giudei non sono fatte per oltraggiare Morte e Passione/ma nel cuore e nella mente dei Sanfratellani sono gioie per la Resurrezione. Non è vero, dunque,/che combiniamo cose storte se prima di far suonare le campane ci divertiamo a far squillare le trombe!

Infine, un’invocazione raccoglie tutti i paesani nella piazza della Chiesa del Convento, a ricordare la Pasqua del 2010, scossa dalla terribile frana che costrinse molti abitanti a lasciare le proprie case. I Giudei rompono il silenzio e si fanno coro, Per ringraziare la terra che traballa/ e gira, che scivola e cambia,/che si apre e si spacca (Airàm uoi), perché la terra, quella terra, quel minuscolo angolo di mondo, nonostante tutto è il pane quotidiano. Nelle nove tracce dell’album, che nasce dopo almeno quindici anni di lavoro e di immani ricerche sul campo, si materializza un ambiente sonoro roboante, in cui all’elettronica e agli strumenti della tradizione si aggiungono gli “sgrigni” delle trombe dei Giudei, modello 1884 a un solo pistone, tipiche di San Fratello. Anche a partire da questa specificità timbrica l’arrangiatore e coautore delle musiche Puccio Castrogiovanni ha ordito il progetto musicale.

Roda rappresenta la possibilità di far conoscere una lingua, una cultura, un luogo che per tanti hanno le caratteristiche dell’inconoscibilità, dell’imperscrutabilità, ma soprattutto dell’immenso fascino. In questo percorso di ricerca e di rielaborazione originale di materiali scritti, orali, di tradizione, d’invenzione, Eleonora Bordonaro, folksinger dei giorni nostri, filo conduttore tra passato e presente, si fa portavoce di una storia nuova della Sicilia, che non è solo terra di miseria e povertà da cui fuggire, ma di grande riscatto, tenacia e orgoglio. Una terra in cui le tradizioni culturali resistono e sono il segno di una ricchezza da rispettare e mantenere viva, perché vi sia un’eredità da lasciare al futuro. Un progetto di salvaguardia che Bordonaro conduce con passione, impegno nello studio e nella ricerca. Forte di carisma, intelligenza creativa, eccellente espressività vocale e potente capacità narrativa. E per il quale ha recentemente ricevuto dal Presidente Mattarella il titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli