Mercedes Sosa

Fin dove posso lotto affinché tutti possano vivere bene. Io lotto, scegliendo e cantando belle canzoni perché un giorno si smetta di vivere in un mondo in cui i missili e la fame provocano genocidi. Mercedes Sosa

 

Mercedes Sosa è la voce dell’Argentina. È la Madre America, la Pachamama, la voce della terra. Una voce che viene da lontano, che conserva la memoria indigena di quel luogo da sempre martoriato. Ma anche dell’Argentina che protesta coraggiosa, che lotta contro le ingiustizie. Una lotta che Mercedes pagherà con l’esilio. Lei, la cantadora popular che ha raccontato le pene del suo popolo, dal suo Paese verrà allontanata. Dopo arresti, minacce, censure, negli anni delle dittature militari. Si diceva che lei, comunista, avrebbe messo in pericolo l’ordine pubblico. Così le vennero negati gli spazi in cui esibirsi, i dischi ritirati dal mercato, le canzoni bandite dalle stazioni radio, la sua voce messa a tacere. Costretta a peregrinare per il mondo, però, quella voce è arrivata ovunque, e con lei la storia del suo Paese. Le violenze, le intimidazioni, le uccisioni. “Le sue canzoni – scrive Ernesto Sabato – giunsero come un’eco fino alle carceri miserabili, ai poveri agricoltori, agli indiani emarginati, agli studenti perseguitati, alle madri inconsolabili. Perché una delle virtù più nobili di Mercedes è non aver mai permesso che gli applausi e la fama, giusti e meritati, l’allontanassero dalla sofferenza della sua gente” [Rodolfo Braceli, Mercedes Sosa, la Negra, p. 362].

Mercedes Sosa, artista dalla voce portentosa, icona di tante battaglie sociali e politiche, la cui voce è risuonata in ogni dove, dalle osterie fino ai grandi teatri di New York, Parigi, Berlino, quella voce l’ha allenata fin da bambina, merce di scambio per pochi spiccioli, sopravvivenza alla povertà più nera.

Quando viene al mondo è suo padre che si occupa di registrarla all’anagrafe. Ma dimentica il nome prescelto dalla madre. Così la battezza Haydeé Mercedes. Per la sua famiglia, però, lei sarà sempre Marta. Marta Mercedes Sosa. Per la gente, invece, per il suo pubblico, per tutti quelli che di generazione in generazione ascolteranno la sua voce, lei sarà sempre e solo “la Negra”. Cioè, “la Ragazza”.

Mercedes nasce a San Miguel de Tucumán, il 9 luglio 1935, giornata dell’Indipendenza. Le sue radici, però, affondano a Santiago del Estero, la terra dei nonni paterni. La nonna partorisce il primo figlio a neanche quindici anni. Poi di figli ne seguiranno altri, numerosi, senza tregua, nonostante la povertà: “Si nasceva senza tante storie – dice Mercedes –, con le finestre aperte, a volte sotto il sole o al chiaro di luna” [Braceli, p. 16].

Alla famiglia dei nonni materni tocca una sorte più infelice. Nonna Genoveva si sposa in comune e in chiesa, ma quando sta per mettere al mondo la madre di Mercedes quel suo sposo, Miguel, la abbandona. Non tornerà mai più lasciando quella ragazzina a crescere una bambina. Più volte la madre di Mercedes proverà a scrivergli per ricevere in risposta solo pugni nello stomaco: “Miguel Girón riconosce di essere suo padre ma non vuole avere più sue notizie. Non vuole che lei gli scriva e nemmeno desidera vederla” [Braceli, p. 17].

Quella dei genitori è invece una grande storia d’amore e la felicità che si respira in casa Sosa compensa l’estrema povertà in cui versa la famiglia. Nascono quattro bambini, ma uno muore subito dopo il primo anno, poco prima del turno di Mercedes di venire al mondo. Quel 9 luglio gli spari di cannone per la festa d’Indipendenza salutano il suo arrivo.

Suo padre fa un po’ di tutto per sbarcare il lunario: lo stivatore al porto, il borsettaio, operaio in segheria, operaio in uno zuccherificio ad alimentare le caldaie. Un inferno, nella già tremenda afa di Tucumán.

Mamma Ema lava e stira in casa di famiglie facoltose, prepara succulenti pranzi. Ema del Carmen Sosa guadagna poco o niente. Infatti, si vive di miseria: “Ricordo molte sere in cui andavamo a letto con il mal di stomaco per la fame. Ho vissuto l’infanzia in una casa povera. Mia madre la prendeva a ridere, ci dava un pezzetto di pane e ci mandava a giocare. Ci nutrivamo d’aria e d’incoscienza”. Ciò a cui non si rinuncia in casa Sosa, però, è la felicità: “Ci mancava tutto ma era come se non ci mancasse niente” [Braceli, p.34].

Mercedes bambina canta sempre. Canta in casa, a scuola, canta tra le tombe del cimitero, canta alle veglie funebri, canta alle cerimonie e alle feste di paese. Canta le canzoni che sente alla radio, quella dei vicini o di un qualche parente. Per loro la radio è un lusso inaccessibile. Ama le canzoni spagnole, soprattutto. Quelle di Lola Flores, di Miguel de Molina. Cantare le viene naturale, ma Mercedes non ha alcuna intenzione di fare del canto la sua professione, non le passa neppure per la testa una cosa del genere. Canta per il gusto di farlo, perché la diverte, perché la solleva dalle vicissitudini quotidiane. Dice, anzi: “Io per tutta la vita ho detestato cantare. […] Sapevo di possedere il dono della voce ma cantare mi piaceva finché non doveva farlo per gli altri” [Braceli, p. 41].

È quasi una disgrazia questo mestiere che diventerà il canto. Lei che non ha mai sentito nessuna chiamata, nessuna reale vocazione. Il primo marito Manuel Oscar Matus sarà lui a convincerla del suo talento e sarà lui a trasformarla in artista. Per far del canto una missione, la possibilità di dare voce agli ultimi della Terra. Protesta contro le ingiustizie sociali.

Ma nel 1950 Mercedes è ancora un’adolescente a cui piace intonare le canzoni che sente alla radio. Partecipa a un concorso canoro organizzato da radio LV12. Lo sa, che cantare alla radio è deplorevole, per una femmina, oltretutto, e ancora bambina. Un malaffare. Tanto che il padre la prende malissimo quando la sente cantare e le fa giurare che mai più accadrà. Pochi giorni dopo, però, il direttore della LV12 si presenta a casa Sosa, la bambina canta in modo impressionante, diventerà una stella, il padre si deve convincere, non c’è nulla di male in quella professione. Così arriva il primo contratto: cantare una volta alla settimana per duecento pesos. La stessa cifra che guadagna sua padre in un mese di lavoro a spaccarsi la schiena. Lei si farà chiamare Gladys Osorio.

Ma è quando incontra Oscar Matus che davvero comprende la sua missione. Chitarrista, compositore e primo marito, sarà lui a introdurla definitivamente nel mondo dell’arte.

“Quando arrivò con le sue canzoni – racconta il fratello di Mercedes, Cacho – stravolse subito tutto a Tucumán. Il folklore era roba di paesaggi, con le canzoni di Matus e Tejada Gómez si scoprì che il paesaggio è importante ma molto più importante è l’uomo. E così come cambiò il folklore con l’arrivo di Matus, allo stesso modo cambiò Marta e il suo repertorio” [Braceli, p. 83].

Lui suona tango nel Casino di Mendoza, è un artista affermato, ma scompare quando sulla scena arriva Mercedes. È per la sua voce che la gente resta a bocca aperta. La coppia tenta la fortuna a Buenos Aires dove Mercedes si esibisce anche senza alcuna musica di sottofondo, bastano una scatola di scarpe, una forchetta o un cucchiaio per accompagnarsi. E la gente impazzisce.

Lei canta durante le assemblee, nelle feste del partito comunista. Le basta poco. Tanto è la voce che sconvolge tutti.

In quegli anni continui golpe militari minano i governi eletti in Argentina. Nel 1955 le Forze Armate, sotto il comando del generale Eduardo Lonardi rovesciano Perón e stabiliscono la cosiddetta Revolución Libertadora. La Marina Militare bombarda la Casa Rosada tentando di uccidere il presidente. Il 18 giugno Perón fugge in esilio prima in Paraguay e poi nella Spagna di Franco. Poco dopo cadrà anche il governo di Arturo Frondizi, rovesciato da un golpe militare nel 1962. In quel momento Mercedes faceva il suo debutto discografico con La voz de la zafra, per la RCA,

e con Canciones con fundamento per l’etichetta El Grillo di Matus.

Nel 1958 il duo è a Mendoza, a Montevideo. È un luogo magico, dove intellettuali, artisti, musicisti si incontrano e creano, immaginano, sognano. È da questi semi che nascerà l’idea del Nuovo Cancionero, un movimento che avrà molta influenza in tutto lo Stato fino a coinvolgere il resto dell’America.

È Matus a intravvedere la possibilità di una rivoluzione in campo musicale: “Bisogna dare forma al Nuovo Cancionero – dirà –, dobbiamo lanciarlo una volta per tutte” [Braceli, p. 128]. Era necessario occuparsi di una nuova canzone che si affrancasse dal folclore a buon mercato delle canzonette artefatte, fabbricate su imitazione del repertorio popolare. Era tempo di immaginare un nuovo mondo, di lottare per una società migliore con parole diverse. E l’arte, la musica, la canzone, la pittura erano i veicoli attraverso cui mostrare questa nuova realtà: libera e democratica, più giusta e solidale. El que no cambia todo no cambia nada: se non si cambia tutto, non si cambia niente. Triunfo agrario è una canzone sulla disperazione della povera gente, i contadini che vedono le loro terre morire nel grande latifondo abbandonato.

Così si metterà a punto un vero e proprio programma e si organizzerà un debutto. L’11 febbraio 1963 nel salone del circolo dei giornalisti di Buenos Aires avviene la presentazione ufficiale del progetto: “La ricerca di una musica nazionale dal contenuto popolare – era scritto nel programma – è sempre stato ed è tuttora uno degli obiettivi più importanti per il popolo argentino. Purtroppo si è perpetrata una canzone artificiosa e asfissiante tra il canzoniere popolare cittadino e il canzoniere popolare nativo di matrice folkloristica”. Questione fondamentale diventava: “la ricerca di una musica nazionale, di radice popolare, espressione del paese nella sua totalità umana e regionale, non attraverso un genere unico, ma attraverso la riscoperta delle sue molteplici manifestazioni. L’attuale risorgimento del folklore, d’altra parte, è il simbolo della maturità che gli argentini hanno conquistato rispetto alla conoscenza reale del Paese” [Braceli, p.130]. Nasceva così un movimento e avrebbe poi rivoluzionato l’intera America Latina. E non fu solo, come ribadisce più volte Mercedes, un’esperienza politica, un canto di protesta sostenuto dal Partito Comunista che dava voce al mondo popolare, con i suoi diritti, valori, cultura e rivendicazioni. Fu anche e soprattutto un fatto artistico, di ricerca della qualità nei testi e nelle musiche: “Tutto è compromesso – dirà Mercedes –. Uno non solo si compromette quando sceglie di cantare canzoni di protesta ma si compromette anche quando esige poesia dal testo e qualità dalla musica” [Braceli, p. 281].

Così, nel 1965 Mercedes si esibisce al Festival Nacional de Folklore di Cosquín. Quel debutto consiste in una sola canzone, Canción del derrumbe indio, intenso brano che narra del dolore dell’indigena davanti ai soprusi dei conquistatori bianchi.

Lei canta con la preoccupazione che qualcuno salga sul palcoscenico a mandarla via, per il suo sostegno alle idee comuniste. La reazione del pubblico è sorprendente: applausi, lacrime. Ma non riceve nessun premio. Solo molti anni dopo questo le verrà conferito. Fortuna vuole, però, che in quell’occasione sia presente Santos Lipesker, delegato della Philips, che in poco tempo la scrittura per l’incisione del disco collettivo Romance de la muerte de Juan Lavalle, con Ernesto Sábato e Eduardo Falú, dove canta Palomita del valle. Canzone sul militare e politico argentino Juan Lavalle, eroe delle guerre di indipendenza sudamericane, capo militare e politico nelle guerre civili dell’Argentina di primo Ottocento.

Nel marzo 1966, poi, inciderà Yo no canto por cantar, un LP comprendente, Canción para mi América. L’America terra di popoli nativi, da sempre straziati: Dai la tua mano all’indio, dagliela che ti farà bene/E incontrerai la strada, come ieri l’ho incontrata io/Dai la tua mano all’indio, dagliela che ti farà bene/Ti bagnerà il sudore santo della lotta e del dovere.

E poi Chayita del vidalero;

Los inundados, sulle grandi inondazioni del fiume Paranà che allagano le terre e costringono i contadini a fuggire altrove;

Tonada de Manuel Rodríguez, dedicata al guerrigliero artefice del processo di indipendenza del Cile;

e Zamba al zafrero, canzone sulla malinconia e la solitudine.

Il successo la porterà a registrare, l’ottobre successivo, Hermano e alla fine del 1967 uscirà Para cantarle a mi gente. La canzone omonima è un inno al canto, che dà voce e speranza alla povera gente di quella terra.

“La mia esistenza è stata questo – dice –: un inesausto viaggio per le città di tutti i continenti” [Braceli, p.101]. Nonostante i dischi le entrate della coppia sono sempre troppo misere per vivere degnamente. Così decidono di tentare la fortuna in Uruguay. Per la prima volta quando Mercedes si esibisce in questo Paese, si rende conto di essere ascoltata, apprezzata, come davvero solo le grandi artiste. “Perché essere un’artista in un paese straniero è una cosa diversa, anche se questo paese straniero è tanto vicino al tuo d’origine” [Braceli, p. 102]. A Montevideo, poi, si sta sviluppando un movimento molto vicino al Nuevo Cancionero argentino. Coinvolge scrittori, intellettuali, poeti, pittori che si raccolgono intorno alla rivista Brecha e da subito adorano le canzoni di Mercedes.

Lei canta al Teluria, allo Yaguarón. Un giorno va ad ascoltarla niente meno che Carlos Gardel. Si innamora de La zafrena, una zamba che lei canta spesso: un ricordo della vita a Tucumán, i raccolti della canna da zucchero, lo sciroppo amaro, la fatica del lavoro.

In Uruguay le radio trasmettono continuamente la sua voce. Le sue canzoni sono insolite, con testi che si avvicinano alla poesia, canzoni che in pochi riescono a capire. Canzoni come Selva sola.

Ma il successo è tale che per la prima volta Mercedes e Matus riescono a mettere da parte qualche soldo.

Sembra tutto perfetto e dall’unione tra i due nasce Fabián. Ma sette anni dopo un bel giorno Matus confessa a Mercedes di non amarla più. Dovrà andare avanti da sola, come artista, come donna e madre. Così lei canterà Zamba para no morir di Lima Quintana e Rosales, e la canterà piangendo: Squarcerà la sera la mia voce / Fino all’eco di ieri/ resto sola alla fine, morta di fede, stanca di vagare/ ma continuo a crescere nel sole, vivo.

È il 1966 quando Matus sparisce e Mercedes deve ricominciare la sua vita da capo. Ma con una grande consapevolezza: “Nel grande amore per Matus – dice – ho scoperto l’amore per la musica. Sentivo che la musica sarebbe stata la mia vita, sentivo di trovarmi all’interno di un movimento in cui alcuni mettevano la poesia, altri la musica, e io la voce” [Braceli, p. 145].

Nel 1972, il 15 agosto, tutto quel lavoro di studio, di ricerca delle radici popolari del canto si materializza sul palcoscenico del Teatro Colón. Una rivoluzione. Considerare artisti i cantanti popolari e lasciar loro spazio in quello storico tempio della musica classica è qualcosa di impensabile. Quando lei entra in scena ha indosso il suo consueto poncho nero. Aspetta che gli applausi si diradino nel silenzio e poi attacca Si ne calla el cantor, canzone sul potere della canzone e di chi la canta per sostenere le battaglie della povera gente: Se il cantante tace, la vita è silenziosa/Perché la vita, la vita stessa è una canzone intera/Se il cantante tace, muore di paura/Speranza, luce e gioia/Se il cantante tace, Gli operai del porto si incrociano/Chi combatterà per il loro salario/Cosa dovrebbe essere della vita se colui che canta/Non alza la voce sulle tribune/Per chi soffre.

Continua con La probrecita, canzone per i poveri tucumani come lei, di cui Mercedes racconta sogni, speranze, miserie e delusioni.

Ogni volta gli applausi aumentano di intensità e la gente come impazzita grida: “Al Colón, la Negra al Colón”. Ora che tutto il teatro è in piedi, lei intona Cancíon con todos, una preghiera per tutta l’America Latina, perché diventi un solo Paese. Mercedes comprende di essere circondata dall’amore del suo popolo: “Quando sono salita sul palco – dirà – mi sono sentita totalmente piena d’amore che mi si è seccata la gola. Poi ho subito dimenticato tutto. E sono riuscita a cantare. Perché mi vogliono tanto bene?” [Braceli, p. 201]. Tutte le voci, tutte,/tutte le mani, tutte,/tutto il sangue può essere/canzone nel vento./Canta insieme a me/fratello americano/libera la tua speranza/con un grido nella voce.

Nel 1971 incide La voz de Mercedes Sosa e Homenaje a Violeta Parra, in cui canta numerose canzoni della famosa cantante cilena, fra cui la celeberrima Gracias a la vida

e Volver a los diecisiete.

Canzone che continuerà a interpretare, anche insieme alle splendide voci di Chico Buarque, Caetano Veloso, Milton Nascimento e Gal Costa.

Partecipa a un film di Leopoldo Torre Nilsson, La tierra en armas, in cui interpreta l’eroina peruviana Juana Azurduy.

https://www.youtube.com/watch?v=2cPTW736o4A

Mercedes è il simbolo dell’Argentina. L’Argentina che soffre, l’Argentina che piange, che ricorda il suo passato di terre conquistate e di popoli sottomessi. Così, nel 1972, nonostante gli attacchi dei militari, esce Hasta la victoria, un album con canzoni di chiaro contenuto sociale e politico. Contiene, per esempio, Los Hermanos, canzone di protesta che richiama lo spirito di fratellanza e libertà, per l’unità di tutta l’America Latina: Yo tengo tantos hermanos/Que no los puedo contar/Y una novia muy hermosa/Que se llama Libertad.

Ma anche la commovente la Plegaria a un labrador di Víctor Jara,

e l’omonima Hasta la victoria che racconta di Ramón Benítez Fernández, uno dei falsi nomi usati da Che Guevara: Io sono Ramón/Colui che spezza le catene/La fede che accende i fuochi/Grido fondamentale/La voce della giustizia/Sono Ramón/Quello che non morirà mai.

Dopo Traigo un pueblo en mi voz, del 1973 e A que florezca mi pueblo, del 1975, nel 1976 esce Mercedes Sosa con i contributi dei poeti Víctor Jara, Pablo Neruda, Alicia Maguiña e Ignacio Villa. Nel 1977 rende omaggio a uno dei maggiori cantautori e scrittori del suo Paese, il più importante rappresentante della musica folclorica argentina, Atahualpa Yupanqui.

Era arrivato anche il grande amore della vita, quello che davvero farà di Mercedes l’artista argentina più rappresentativa nel mondo.

Pocho Mazzitelli non è solo un amore sconfinato e il secondo marito. È il suo manager, colui che cura i suoi interessi, che costruisce la carriera di Mercedes successo dopo successo. “Un giorno, dopo tanti spettacoli in giro per il mondo – dice lei -, mi portò in banca perché vedessi i dollari che avevo guadagnato grazie al mio lavoro. Mi impressionò così tanto che dovetti uscire subito per andare a vomitare, perché io i dollari li ho odiati per tutta la vita” [Braceli p. 148].

È anche grazie a Pocho che Mercedes riesce a smettere di bere, ad autodistruggersi a forza di buttar giù whisky per calmare la sua ansia, la patologica timidezza di fronte al pubblico.

Nella grande storia d’amore con quest’uomo, che coincide anche con l’inizio vero della carriera di Mercedes, si innestano vicende dolorose e traumatiche: una ex moglie che ogni tanto si fa viva chiedendo soldi, un aborto forzato, per le sue difficili condizioni di salute, l’ipertiroidismo che la porterà all’obesità. Un’esperienza da cui lei trarrà la forza per combattere una battaglia a fianco dell’Unicef a sostegno delle donne e a favore della depenalizzazione dell’aborto. “Sono contro l’ipocrisia – dirà –, le bugie e la clandestinità terrificante verso cui sono spinte le donne povere ed emarginate […]. Vorrei chiedere a quegli ipocriti che sono contro la depenalizzazione: forse loro non provocano milioni di aborti tutti i giorni? Aborti quando chiudono le fabbriche, aborti quando tolgono il lavoro, aborti quando condannano i ragazzi ad una fame certa che li sfianca e li uccide” [Braceli p. 155].

Mercedes si batterà perché all’ignoranza si sostituisca una reale educazione sessuale. Perché ogni donna possa crescere nella consapevolezza del proprio corpo, padrona del proprio destino.

Intanto, in Argentina una dittatura militare prende il potere e governerà tra il 1976 e il 1983, in seguito al colpo di Stato del 24 marzo 1976 che destituisce il governo democraticamente eletto di María Estela Martínez de Perón soprannominata Isabelita. Si caratterizza per una forte repressione dell’opposizione e numerose violazioni di diritti umani. Il primo ad assumere la presidenza dopo una serie di piccoli governi dittatoriali fu Jorge Rafael Videla, presidente de facto tra il 1976 e 1981.

Sarà in seguito a questi fatti che il nome di Mercedes, la sua musica, giungeranno in tutto il mondo. Qualcosa di terribile, inquietante eppure reale, sarebbe presto accaduto. Mercedes, infatti, subisce l’esilio dal suo Paese. Quell’incubo ha inizio nel 1975. Isabelita Perón è al governo, ma a reggere le trame del Paese è José López Rega, fondatore dell’organizzazione terroristica Alianza Anticomunista Argentina, con cui organizza un massacro di sostenitori di sinistra di Perón. La Tripla A (Alleanza Anticomunista Argentina) semina il terrore ovunque. Minaccia attentati, fa esplodere bombe, sequestra persone, getta odio tra la gente. In quei giorni Mercedes riceve alcune lettere. In una di queste, inviata al Teatro Estrellas dove si deve esibire per alcune settimane, la invitano a sparire, andarsene definitivamente dall’Argentina nel giro di quattro giorni. Corre alla polizia per denunciare il fatto. “Dovevo andarmene perché ero comunista – dice –, per quello che cantavo e per i miei ideali” [Braceli p. 205]. Tanti artisti come lei hanno paura, in tanti subiscono la stessa minaccia, ma Mercedes resiste. In teatro arrivano telefonate anonime: Ti facciamo saltare sul palco, le dicono. Fino a che una mattina la città di Buenos Aires si risveglia tappezzata di manifesti. Riguardano lo spettacolo di Mercedes e invitano la gente a non parteciparvi. Poi una bomba esplode nel bagno della biglietteria del teatro. Poco dopo prenderà fuoco la sala più grande. La paura si tocca con mano, ma lo spettacolo va in scena. Per un mese Mercedes canta tra gli applausi della gente che ogni sera fa il tutto esaurito. Canta per la prima volta Terceto Autóctono, ispirata alla poesia di César Vallejo.

Poco dopo Mercedes è invitata a cantare in Giappone, a Los Angeles e lì si rende conto di cosa voglia dire poter camminare per le strade di una città senza la paura. Due mesi dopo, al ritorno in Argentina, rovesciata Isabelita, la dittatura militare prende il potere dando inizio a una lunga sequela di atrocità: “Uccidevano, gettavano i corpi dagli aerei – dice –, sequestravano bambini” [Braceli, p. 211]. Per Mercedes lavorare diventa impossibile e l’esilio è l’unica strada percorribile. Una scelta definitiva dopo il suo arresto, il 23 ottobre 1978 a La Plata.

La Plata era considerata una “città rossa” non perché vi fossero i comunisti, ma per il numero delle vittime: gli innumerevoli cadaveri dei giovani affioravano dalle acque del fiume tingendole color del sangue.

“La cantante popolare tucumana, Mercedes Sosa, è stata arrestata dalla polizia di La Plata – si legge in un articolo del quotidiano Crónica – alcuni attimi prima di finire la sua performance nell’Almacén San José. Una volta arrestata, è stata portata in una camionetta al commissariato, dove, insieme ai suoi accompagnatori, è stata detenuta, secondo fonti non ufficiali, per sedici ore […]. La polizia non ha rilasciato informazioni ufficiali ma si ritiene che l’operazione sia stata necessaria visto che il repertorio dell’artista includeva canzoni di protesta” [Braceli, p. 211]. In quell’occasione anche trecento degli spettatori al suo concerto vengono arrestati.

“Mi tornano in mente – racconta Mercedes – le immagini della sera in cui mi arrestarono a La Plata. Era tutto preparato, la polizia organizzò l’azione e l’esercito circondò il posto. Dovevano entrare mentre cantavo Cuando tenga la tierra. Mi sforzai e la cantai, stavo quasi per cantare El mundo prometito a Juanito Laguna, quando arriva Fabían disperato e mi grida: Mercedes, scendi dal palco! Avevamo già la polizia addosso” [Braceli, p. 218].

Cuando tenga la tierra è una canzone epica, attraverso cui Mercedes dà voce ai poveri contadini che sperano un giorno di possedere un po’ di terra da coltivare. Quel giorno saranno liberi, berranno vino e canteranno.

El mundo prometito a Juanito Laguna, invece, racconta del piccolo Juanito, un personaggio creato dal pittore argentino Antonio Berni, archetipo di tutti i bambini poveri incontrati lungo le strade della provincia argentina. È un bambino che vive nelle baraccopoli. Come tanti, figlio della miseria: Ogni bambino è Juan.

Ma non finisce qui. Quando si esibisce al Teatro Lasalle spengono la luce di continuo interrompendo lo svolgimento dello spettacolo. Al Teatro di Pinamar le impediscono di entrare in scena. Era chiaro che non avrebbe più lavorato e oltre a lei anche il suo pubblico stava rischiando minacce e maltrattamenti. Così si fa coraggio, raccoglie poche cose, prende un aereo e parte per la Spagna. Addio Argentina. Madrid, Parigi le offrono importanti palcoscenici dove far ascoltare la sua voce. Ma nulla la distrae dallo sconforto della lontananza dalla sua terra: “Non basta il denaro, il successo, né gli elogi dei grandi quotidiani mondiali. L’esilio è sempre morte” [Braceli, p. 220].

Quando è in esilio canta per tutta Europa. Allo stadio di Francoforte incanta trentamila persone con Al jardín de la República, canzone d’amore per la sua terra. Si prendono per mano, molti piangono, questo è l’effetto che fa la sua voce.

Perfino in Giappone riesce ad abbattere ogni possibile barriera tra lei e un pubblico così diverso per lingua, cultura, tradizioni.

Canta Todo cambia, canzone di autore cileno scritta nel pieno della dittatura di Pinochet. Mercedes ne fa un canto di dolore per la lontananza dal suo Paese: Ma non cambia il mio amore/per quanto lontano mi trovi,/né il ricordo né il dolore/della mia terra e della mia gente./E ciò che è cambiato ieri /di nuovo cambierà domani/così come cambio io/in questa terra lontana. Cambia, tutto cambia.

Il 18 febbraio 1982 fa ritorno in Argentina. Per l’occasione viene organizzato un grande concerto all’Ópera di Buenos Aires. I militari sparano gli ultimi colpi e la voce di Mercedes sembra essere un antidoto per farli smettere. Canta, infatti, una canzone di pace più volte censurata: Sólo le pido a Dios. La dittatura sta per essere sconfitta, ma si teme per un conflitto tra Cile e Argentina e di lì a poco molti ragazzi saranno mandati a morire nelle isole Malvinas. Nel 1982 l’Argentina iniziava una guerra per la sovranità sulle isole Falkland-Malvinas contro il Regno Unito. La sconfitta delle truppe argentine e la morte in combattimento di circa 600 soldati, saranno il colpo definitivo al regime militare.

La gente le grida: “Negra vieni fuori, resta in Argentina, questo è il tuo paese” [Braceli, p.243]. Su quel palco ha paura che le manchi la voce e dice solo: Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina. E poi intona tutto il suo repertorio. Alcune canzoni sono ancora vietate dalla censura, ma lei le canta lo stesso. Come La carta: Mi hanno mandato una lettera/per posta anticipata,/in quella lettera mi dicono/che mio fratello fu imprigionato,/e senza compassione/L’hanno trascinato per la strada. Non c’è giustizia in questo paese, per fortuna a volte basta una chitarra per denunciare ciò che accade.

Censurata è anche Juana Azurduy, dedicata all’eroina rivoluzionaria del Perù: Juana Azurduy,/Fiore dell’Alto Perù,/non c’è nessun altro capitano/più coraggioso di te.

Si esibirà per tredici serate al Teatro dell’Opera di Buenos Aires, accompagnata dai musicisti León Gieco e Charly García. Tutti i concerti iniziano con il brano Todavía cantamos, un inno alla resistenza e alla speranza. Canzone dedicata ai tanti desaparecidos, vittime della “guerra sporca”, quella campagna repressiva compiuta allo scopo di distruggere qualsiasi forma di dissidenza e di sovversione, eliminare ogni voce di protesta che potesse levarsi dall’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario. Ora il dolore e l’assenza si trasformano in memoria, speranza in un futuro diverso, senza fame, senza paura, senza guerre e lacrime: Ancora cantiamo, ancora chiediamo,/ancora sogniamo, ancora aspettiamo/nonostante i colpi/che ha inferto alle nostre vite/la macchina dell’odio/esiliando nell’oblio i nostri cari.

Nel dicembre del 1984 Mercedes presenta Corazón americano nello stadio di Vélez Sársfield. Sul palco con lei ci sono Milton Nascimento e Léon Gieco. Il regista tedesco Stafan Paul riprende lo spettacolo per il suo lungometraggio Será posible el Sur che sarà poi presentato al Festival di Cannes.

Nel 1985 Mercedes tornerà in Uruguay, a cantare nello stadio Centenario. Per lei quella sera ci sono cinquantaduemila persone. Quando attacca Quién dijo que todo está perdido Yo vengo a ofrecer mi corazón lo stadio trema come ci fosse un terremoto.

“Tutto quello che era racchiuso in quello spettacolo – ricorda l’organizzatore Víctor Hugo Morales – fu di grande intensità: stavamo tornando alla democrazia, le persone sentivano il bisogno di esplodere di gioia, la qualità del suono era a dir poco perfetta, la notte era chiara e la voce di Mercedes vibrò e invase tutto lo spazio” [Braceli, p. 107]. Straordinaria la sua Los mareados.

Sono tante le battaglie che Mercedes conduce lungo la sua vita: per il coraggio delle donne, per la depenalizzazione dell’aborto, contro le dittature, per la verità sui desaparecidos, per la pace e i diritti civili, per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1997, in veste di Vice Presidente della Commissione per la stesura della Carta della Terra, partecipa al convegno in cui viene stilato un documento per la Tutela dell’Ambiente equivalente alla Carta dei Diritti Umani. Con lei ci sono grandi personalità, da Gorbaciov a Steve Rockfeller. Alla riunione successiva partecipano, oltre a intellettuali, indios dell’Amazzonia, di Panama, dell’Argentina. I depredati da sempre, gli ultimi della terra, gli sconfitti e i derubati. È una globalizzazione più coscienziosa quella che si deve attuare, se si vuole evitare di distruggere la terra e tutte le sue risorse. Profanate, saccheggiate.

La sua carriera è costellata di incontri importanti, di duetti memorabili come quello con Joan Baez in Gracias a la vida quando nel 1988 realizzerà con lei e il cantautore tedesco Konstantin Wecker il tour Three Voices.

E di teatri importanti in cui la sua voce risuona. New York, il Lincoln Center, Stoccolma, Berlino, tra Carnegie Hall e Rond Point e Colón. E non mancano gli eventi sorprendenti, i luoghi impensabili in cui la sua voce emoziona. A settanta chilometri da La Quiaca, tremilaottocento metri sul livello del mare, un intero paese ha ridipinto le case, ripulito le strade ed è accorso per lei. A Santa Catilina, un angolo sperduto di mondo, tutti conoscono le sue canzoni, le cantano, le ballano, le applaudono.

Numerosi gli artisti che per lei hanno composto canzoni memorabili: Hécator Negro, Ernesto Sabato, León Gieco. La sua registrazione della Misa Criolla, opera somma del folklore argentino, poi, è qualcosa di eccezionale.

Ancora nel 1993, nell’album 30 Años, Mercedes registra Hermano Dame Tu Mano, canzone per ricordare il valore della libertà e dell’unità tra i popoli dell’America Latina: Hermano dame tu mano vamos juntos a buscar/Una cosa pequeñita que se llama libertad/Esta es la hora primera este es el justo lugar/Abre la puerta que afuera la tierra no aguanta más.

Il 4 ottobre 2009 Mercedes Sosa, la Cantora del Pueblo, muore a Buenos Aires. Lo stesso giorno in cui era venuta al mondo Violeta Parra. Verranno decretati tre giorni di lutto nazionale. Le sue ceneri disperse fra Buenos Aires, Mendoza e Tucumán.

Ricordare la sua storia è anche raccontare una testimonianza viva delle vicende più tragiche dell’Argentina del dopo guerra, con il lento e doloroso passaggio dal regime militare alle elezioni democratiche. Il numero di scomparsi durante la dittatura, i desaparecidos, nel 1983 venne stimato tra 15.000 e 30.000. Quelle dittature, inoltre, operarono la repressione su settori specifici della società, quelli politicamente più attivi: i giornalisti, i sindacalisti, gli artisti. Su tutti, Mercedes.

Ma la sua voce, limpida, carnale, umana, è stata uno straordinario strumento di mediazione. Ha saputo dare voce agli indifesi, gli esseri umani messi a tacere dalla violenza, dalla prevaricazione, dell’ingiustizia, dalla prepotenza: “Nella voce di Mercedes – scrive Ernesto Sabato – ci sono mistero, dolcezza, bellezza, malinconia, ma anche la vigliaccheria degli uomini, i bambini orfani, l’urgenza della giustizia, la necessità di una rivoluzione e utopie possibili” [Braceli, p. 362].

Un racconto di questa artista si trova anche nel documentario Acústico en Suiza:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati,edizioni Unicopli