In pochi giorni la situazione politica ha subito un’impressionante accelerazione. La nascita del governo Conte, infatti, non è avvenuta sulla scorta di un percorso di progressiva stabilizzazione ma ha inaugurato un processo di radicalizzazione che, in tutta probabilità, proseguirà anche per i tempi a venire, poiché una parte degli attori politici che sono entrati in gioco ha tutto interesse a mantenere questo cammino. Il quale, se da una parte libera dall’onere di tenere concreta fede dall’improbabile “programma” sottoscritto dai due maggiori partiti, dall’altro permette di spostare il fuoco dell’attenzione collettiva su una serie di temi che hanno assunto da tempo una rilevanza ideologica, completamente sganciata dal riscontro dei fatti: le immigrazioni, la condotta dell’Unione Europea ma anche la presenza di minoranze identificate come tendenzialmente delinquenziali.
Il caso del rimando, in ipotesi, ad un «censimento dei nomadi», si inscrive all’interno di questa costellazione di suggestioni. Ed è il prodotto non solo di una strategia politica di lungo periodo, della quale la Lega di Matteo Salvini è oramai da molto tempo l’alfiere, ma anche di un complesso di sollecitazioni che arrivano da quella parte del Continente dove esecutivi chiaramente conservatori, se non reazionari, sono saliti al potere in questo ultimo decennio. L’Italia guarda ad essi, almeno dal risultato delle elezioni del 4 marzo scorso in poi. Quindi, gli interlocutori attuali e a venire sono sempre più spesso baricentrati nell’Europa orientale piuttosto che in quella occidentale. Così per l’Austria di Sebastian Kurz e Heinz-Christian Strache, del Partito popolare; per il blocco euroscettico del «gruppo di Visegràd», che raccoglie la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica ceca e quella slovacca; ma adesso anche con la Macedonia e la Slovenia. In capo a tutti si pone quello che per molti di essi già costituisce (o diventerà presto) il polo di attrazione per eccellenza, la Russia di Putin. Che condivide, insieme ad altri paesi come la Turchia di Erdogan, un regime politico che sempre più spesso è assimilato ad una «democratura», ossia ad un habitat politico dove a fronte del rispetto formale di alcune procedure di diritto, nei fatti le libertà sono fortemente vincolate e le opposizioni, spesso già intimidite, sono ridotte al rango di dissidenze. L’obiettivo comune a questi Paesi, pur nella diversità di interessi geopolitici e nella varietà delle loro storie, è di avvantaggiarsi della crisi dell’Unione Europea, in alcuni casi non solo intendendone ridimensionare la capacità di azione, ma anche lo sgretolarne il potere residuo. È plausibile che questo obiettivo, perdurante lo stato attuale delle cose, possa essere raggiunto nei tempi a venire. Anche perché la stessa Unione si rivela scarsamente avveduta.
Nessuna correzione di rotta, infatti, ha introdotto rispetto alle sue radicate posizioni liberiste, fondate sull’ossessione del «pareggio di bilancio», dal quale derivano richieste di politiche sociali fortemente punitive nei confronti delle collettività nazionali più indebitate. La stessa presidenza americana di Donald Trump si sta adoperando in un indirizzo antieuropeo, riconoscendo nei governi e nelle forze di taglio populista e sovranista i propri effettivi interlocutori, a scapito del sistema di relazioni internazionali che è valso fino a non molto tempo fa e che invece identificava nei partiti più tradizionali (e nei loro esponenti) i concreti destinatari dell’azione politica. Al multilateralismo degli accordi precedenti, dove ad essere chiamate in causa erano una pluralità di nazioni e, insieme ad esse, il consesso degli organismi mondiali, come ad esempio le Nazioni Unite, si sta quindi sostituendo il bilateralismo dei rapporti a due soli protagonisti, che saltano ogni altra forma di mediazione.
Cosa c’entra tutto ciò con la concreta situazione del nostro Paese? Poiché la fase che si sta vivendo è di trasformazione profonda, bisogna ricollegare i fili sparsi della realtà quotidiana, e le sue molte spinte contraddittorie, con lo scenario di quadro. Un primo dato da cui partire, quindi, è il rapporto – forse anche il legame – che una parte delle organizzazioni sovraniste italiane intrattengono con quei governi che hanno fatto dell’antieuropeismo una delle loro bandiere più importanti. Si tratta di una precisa collocazione di campo che vede tutta la Lega, ed una parte del Movimento 5 stelle, chiamati direttamente in causa. Non si tratta solo di una convinzione politica o di un’opzione ideologica, bensì di una strategia di rinegoziazione dei rapporti a lungo termine all’interno del nostro Continente. Se le forze populiste vogliono avere un futuro debbono d’altro canto inevitabilmente spingere alla radicalizzazione del confronto con Bruxelles, che altrimenti negherà loro risorse e spazi di manovra per dare seguito anche solo ad una parte dei propri programmi elettorali.
Da tutto ciò deriva un secondo elemento, ovvero la propensione a considerare l’azione di governo non come l’ambito nel quale realizzare ciò che è stato promesso agli elettori (ossia di tutto e di più, quindi il nulla all’atto concreto), ma una specie di eterna campagna elettorale, nel corso della quale identificare i «nemici» contro i quali raccogliere e convogliare la rabbia popolare. La disumanizzazione del discorso politico, infatti, fa il paio con la sua etnicizzazione. Le campagne contro i migranti, quella sulla schedatura dei rom, più in generale la ricerca di un gruppo di esseri umani contro i quali scagliare la propria rabbia, rimanda a due ordine di discorsi. Il primo è quello per cui la presunta pericolosità (la «minaccia») di una minoranza avrebbe una ragione e un fondamento di natura etnica, derivando dal fatto che gli appartenenti a quello specifico gruppo sarebbero un po’ tutti propensi a delinquere, in quanto membri della medesima comunità. Se una tale visione delle cose è espressa da esponenti politici al governo, il rischio al quale si è esposti è quello di dare seguito ad un vero e proprio razzismo di Stato. Il secondo aspetto è che l’aggredire verbalmente la minoranza in questione, con il favore amplificatorio dei mezzi di comunicazione, serve – nel medesimo tempo – a deviare l’attenzione collettiva dai grandi problemi, a partire da quello delle crescenti diseguaglianze sociali, così come a stabilire una sorta di pregiudizio destinato a imporsi nel pensare comune, tra l’opinione pubblica. La quale si allineerà consenziente alla volontà di una parte dei suoi esponenti politici senza comprendere di essere stata espropriata del suo diritto a conoscere e a giudicare in autonomia.
Hanno quindi ragione coloro che chiedono all’attuale opposizione politica e parlamentare di liberarsi dalla morsa alla quale ci si sta altrimenti consegnando, con la passiva accettazione del giocare la propria partita politica sul terreno della mera risposta all’aggressività del leader della Lega. La condotta mediatica di Salvini (poiché al momento di ciò si tratta, ossia di una serie di annunci in successione, molto eclatanti ma non certo di sicura realizzabilità) è infatti tanto studiata quanto prevedibile: tenere inchiodato l’intero Paese sulle proprie quotidiane prese di posizione, facendo circolare il più possibile la propria immagine e il proprio nome; dettare una fittizia ma “clamorosa” agenda politica non solo all’opposizione, ma anche e soprattutto ai suoi attuali (e probabilmente temporanei) coinquilini di governo, ciò facendo con l’intento di sfiancarli; dare l’impressione di essere colui che domina temi e problemi cari alla «gente»; mantenere il più possibile in caldo i motori, continuando la campagna elettorale, poiché altrimenti ci si dovrebbe confrontare con una serie di problemi concreti per i quali non si hanno strategie né, tanto meno, risorse; alimentare allo spasimo la finta dialettica degli opposti tra affermazioni roboanti, urticanti, fittiziamente “veraci” (“accidenti, ha il coraggio di essere politicamente scorretto! Finalmente uno che parla come mangia!”) e la prevedibile risposta degli avversari, tutta basata sull’esecrazione e sul diniego, due condotte che se lasciate a sé rischiano solo di marcare l’impotenza politica di chi non ha altro orizzonte che esse stesse (così come era già stato con Berlusconi, quanto il rifiuto di ciò che rappresentava non si era tradotto nella proposta di un programma politico alternativo); in altre parole, il portare l’Italia a elezioni anticipate, plausibilmente nella primavera del prossimo anno, prima, durante o dopo la tornata delle europee, essendo l’azionista di maggioranza, pronto ad essere incoronato.
Alla strategia illiberale delle dichiarazioni aggressive ed eclatanti – il muoversi nella logica di scompaginare l’ordine costituito della prassi politica, presentando ciò come un liberatorio “atto di verità” che finalmente interverrebbe nella palude della politica impotente – si accompagna lo spostamento ossessivo del baricentro della claque politica verso temi sempre più intolleranti, ben sapendo che in gioco c’è la conquista del senso comune (cosa che sta riuscendo) così come il rapporto privilegiato con i Paesi più conservatori. Poste queste premesse – quindi – sussiste un problema di strategia politica che diventa il problema politico per eccellenza: come si risponde ad una offensiva che si qualifica come Kulturkampf – una vera e propria battaglia per influenzare il senso comune, pertanto il voto dei molti – e che quindi, plausibilmente, non solo si ripeterà ma cercherà di divorare qualsiasi altro orizzonte di discussione e riflessione? Basta rispondere solo nel merito? Basta stringersi nella cittadella, sempre più assediata, della sola Costituzione? Nulla da obiettare a manifestazioni contro queste angoscianti derive. Da ciò – tuttavia – pensare che possano reggere da sé, e non in alleanza con altro, parrebbe non essere sufficiente. La vera forza del regresso in atto sta nella disarticolazione dell’opposizione sociale. Ma tale disarticolazione non è un mero problema di “volontà” difettante, bensì di effetto della ristrutturazione dei sistemi di funzioni, ruoli e relazioni delle società nazionali nell’età della globalizzazione. Ci si trova in una nuova fase politica e culturale. Bisogna pensare, studiare, capire e poi rispondere. Va da sé che oggi tutto ciò si consumi anche per l’assoluta insufficienza della politica organizzata, a partire da quella dei partiti e dei movimenti tradizionali. Gli imprenditori politici dell’angoscia l’hanno pienamente compreso. Come tali coltivano un obiettivo praticabile, poiché non irreale: spostare il fuoco della polemica dalla politica alle istituzioni. Per archiviare la Costituzione sociale, che garantisce il diritto alla diversità in accordo a quello all’uguaglianza (dei diritti). In una sorta di escalation. C’è un grande problema di egemonia culturale, prima ancora che di debolezza politica. Da qui bisogna ripartire, altrimenti il sovranismo avrà un futuro garantito.
Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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