«Ero semplicemente un cittadino, quando nel 1998 ci fu uno sbarco di 800 persone tra afgani, iracheni e curdi. È stata l’occasione a guidarci: fondammo un’associazione dedicata a Tommaso Campanella, Città Futura. Ci siamo divertiti a immaginare una società ideale. Io provengo dall’impegno politico, molto forte, molto convinto. Molto a sinistra, intendiamoci. Facevo parte di Unità Proletaria. La mia Calabria è una terra di forte declino demografico, con fenomeni di marginalità sociale, dove regna la rassegnazione: “tanto ormai, tanto ormai…”. Riace invecchiava e si svuotava, popolata solo di anziani era condannata all’annientamento e all’oblio. In questo contesto particolare della provincia di Reggio Calabria e della Locride, nulla sembra sfuggire ai condizionamenti mafiosi. Si depredava il territorio con opere pubbliche e piani di sviluppo inverosimili, si scempiava con la speculazione edilizia; l’economia locale, interamente agricola, subiva la pressione delle ’ndrine. Così abbiamo cercato di ragionare in modo nuovo, per reagire e difendere il bene comune, collettivo, pubblico. Bisognava ricominciare daccapo. E quel sistema insano siamo riusciti ad alterarlo».
Come avete fatto?
Partendo dalla consapevolezza delle scarse possibilità economiche, senza consegnarci a sterili e annose rivendicazioni come la questione meridionale e l’abbandono da parte dei governi nazionali. Abbiamo studiato il territorio e compreso che si poteva ricominciare riempiendo gli spazi vuoti, puntando cioè sul recupero: del territorio, dell’identità, del patrimonio culturale locale, delle case abbandonate. Così è nato il centro di accoglienza per i profughi. Soprattutto eravamo animati da un’idea della politica capace di costruire, guardando alle persone e alle relazioni umane. Desideravamo dare forma all’entusiasmo che avevamo dentro e abbiamo ancora.
L’accoglienza ha riportato in vita un paese divenuto fantasma…
Anno dopo anno abbiamo aderito ai programmi del ministero dell’Interno e pian piano Riace è divenuta una terra come Lampedusa, di passaggio. Però poi in molti hanno messo radici, gli sbarchi non si sono arrestati, le famiglie di profughi si sono potute riunire. Gli abitanti sono 1.726 e 500 i richiedenti asilo, ci sono persone provenienti da 25 nazionalità diverse. Il paese è costituito da due nuclei abitativi distanti tra loro 3 km: la marina, di più recente edificazione, e un centro storico nella parte alta, a trecento metri dal mare, dove vivono in prevalenza persone immigrate. Si convive serenamente e normalmente nella multietnicità. Non mi aspettavo tanta risonanza mediatica. Mi ha sorpreso essere portato a emblema internazionale di impegno civile.
Pensa che Riace possa costituire un modello per l’integrazione?
Sì, vogliamo dare un esempio e un messaggio di umanità al mondo, invitare a capire che i nostri problemi economici, rispetto a quanto avviene nel resto del pianeta, sono poca cosa. Le migrazioni sono un fenomeno globale e ne vanno comprese le ragioni. Siamo noi occidentali, col nostro stile di vita, i veri responsabili dell’esodo delle migliaia e migliaia di persone che si mettono in viaggio. Destabilizziamo enormi aree con le guerre e per ragioni di profitto economico le condanniamo alla miseria. Chi fugge dal proprio Paese cerca scampo dalla guerra o dalla povertà. Sappiamo che il viaggio dei migranti può durare anche anni e può avere come meta la morte. È troppo facile chiedere la chiusura delle frontiere e la fine degli sbarchi, o creare allarme col timore delle malattie portate dai profughi. Per gli abitanti di Riace vivere in questo modo è la normalità. Avere sensibilità umana, non avere pregiudizi o secondi fini, è la nostra la quotidiana normalità.
L’Articolo 2 della Costituzione italiana sancisce il dovere della Repubblica all’accoglienza, pensa di interpretarne al meglio il dettato?
Riace ha dimostrato che nonostante le difficoltà è possibile vivere meglio accogliendo. Il paese è piccolissimo, i problemi sono tanti, ma abbiamo saputo dare una risposta giusta alla casualità. Quel veliero che approdò sulle nostre coste nel 1998 fu portato dal caso, dal vento. Come era accaduto nel ’72 per le statue, i famosi Bronzi, e come è stato in seguito con i ripetuti sbarchi. Ma la risposta alla sofferenza e alla disperazione è stata umana. L’esperienza diretta mi permette di affermare che il sentimento democratico e di profonda umanità sopravvive proprio nei luoghi sconvolti dalla crisi, come la Calabria di oggi, la Calabria rurale dell’interno sconvolta dalla mancanza del lavoro e dall’emigrazione. Riace è il Sud del Sud, la periferia della stessa Calabria, ma la spontaneità non è stata scalfita dalla paura. Quel veliero resta il simbolo di un incontro tra persone disperate in cerca di salvezza e persone che credono nell’uguaglianza e nel rispetto reciproco. Oggi vivono insieme un’utopia possibile.
Qual è il segreto per amministrare bene Riace?
Non so cosa significhi autorità. Molti miei colleghi governano con ordinanze contro le persone, contro il terrorismo, contro i rom. Ci sono molte organizzazioni politiche basate sull’odio razziale e sul disprezzo dell’umanità, che adottano politiche distruttive, sono sempre contro. Io la parola “contro” non la voglio nemmeno utilizzare. L’Europa del dopoguerra, che doveva essere un esempio di unità, inclusione e pace, di fronte alle migrazioni dimostra di cedere ai nazionalismi e prevalgono le soluzioni inumane di chiusura. Si discute all’infinito sulle soluzioni, ma non servono ricette complicate. Papa Francesco ha detto appena tre parole “Aprite i conventi”; Vittorio Arrigoni, il pacifista italiano morto in Palestina per un sogno di pace, diceva “Restiamo umani”. Io sono comunista nel senso ideale più ampio. Se un cittadino viene a Riace per me ha gli stessi miei diritti. Per questo oggi Riace non è più solo un comune calabrese. È un comune del mondo.
Lei è sindaco da tre mandati…
Quando mi sono candidato la prima volta, mio padre non mi ha votato. Non ho ambizioni politiche, desidero solo fare il sindaco dei miei concittadini per avere un futuro felice insieme. Voglio essere utile, impiegare le energie migliori e metterle al servizio del mio paese, per stare bene tutti. Ma le difficoltà sono costanti, non va dimenticato: i contributi dei programmi nazionali arrivano in ritardo e sono pure in scadenza. Noi abbiamo cercato di fare leva sulla creatività, investendo nella raccolta differenziata, nel turismo solidale. Vorremmo rilanciare l’agricoltura e abbiamo anche un mare bellissimo: sono tutte opportunità di lavoro e di sviluppo economico. In futuro dovremo proseguire con le nostre gambe. Ultimamente abbiamo avviato un esperimento di moneta locale, una sorta di bonus di diverso valore sul quale abbiamo impresso l’immagine di Che Guevara. So che a qualcuno non è piaciuto, tuttavia andiamo avanti.
Ha ricevuto le congratulazioni delle istituzioni nazionali e locali per il prestigio che un minuscolo borgo calabrese ha conferito a tutta l’Italia?
Solo da qualcuno della Regione Toscana, oppure da semplici cittadini, o dai compagni dell’impegno politico e civile di un tempo. Non mi ha chiamato nessun altro.
Riace può ancora ospitare migranti?
L’antico centro del paese, sulla collina, si è completamente svuotato negli anni 60 e 70. La terra era in mano a poche persone facoltose e i braccianti furono costretti ad andar via per lavorare nelle fabbriche del Nord. È stato un preciso disegno politico che ha penalizzato il Sud. Le case deserte erano almeno duemila, dunque abbiamo ancora spazio per chi volesse stare da noi. È il mondo che ha perso la sua dimensione umana. Noi possiamo accogliere ancora, e insisto: per i cittadini di Riace è un fatto normale.
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
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