Solo un regista dall’estro inquietante come Christopher Nolan poteva affrontare con tanta foga la figura di Robert Oppenheimer uomo e scienziato. Il film malgrado certe lungaggini e tortuosità è denso di sequenze significative e interessanti che riportano a burrascosi momenti storici.
Nolan punta molto sulla tensione del tema e nello stesso tempo sulla complessità di personaggi e fatti. Il fuoco della ricerca scientifica del protagonista, tradotto in immagini esplosive e dialoghi intelligenti, riproduce il fulcro degli esperimenti e dei dibattiti fra esperti. Il clima politico e gli eventi che attorniano la scienza sono altri elementi incisivi. Possiamo seguire il dinamismo del teorico che cerca l’inedito e affronta ostinatamente i segreti della materia, ma non sarà sordo al rimorso etico.
I suoi meriti nell’introduzione della meccanica quantistica lo portano in America a dirigere il programma Manhattan nel pieno del conflitto mondiale contro il nazismo. Viene scelto per la sua eccellenza nel preparare quell’ordigno nucleare che concluderà l’ultimo ruggito dell’Asse, la guerra col Giappone. L’ingaggio che solleva i suoi dubbi è giustificato dalle motivazioni ideali. Oppenheimer è ebreo e sente il dramma di tanta gente massacrata dal regime hitleriano. Deve dare il suo contributo per la sconfitta della guerra nazista. E spera nel deterrente di un’arma definitiva che scoraggerà il genere umano da ogni conflitto successivo. La gara è frenetica, fervono i preparativi nucleari tedeschi. Non c’è tempo da perdere.
Nella complessità della storia rientrano i collaboratori, amici e nemici. Il campo si divide non solo nei laboratori e nelle riviste ma anche sul piano morale. C’è chi esita di fronte a una bomba che farà una spaventosa ecatombe. Alcuni vorrebbero seguire una via di trattative. Altri invece abbracciano una linea pragmatica e dura per far tornare a casa i soldati americani. Quest’ultima sarà la scelta del presidente Truman. I tedeschi sono stati già sconfitti e il Giappone è allo stremo ma non sembra volersi arrendere. Ed entra in gioco il lavorio di diffidenze e contrasti con l’alleato sovietico.
La sequenza dell’incontro che vedremo fra Oppie e Truman dopo Hiroshima chiarisce con pochi tratti la tracotanza di quest’ultimo. Non sappiamo se si tratti di scena reale ma è di indubbia efficacia. Il presidente tratta ironicamente il grande artigiano della bomba osannato in tutto il Paese. Quando, preso dai sensi di colpa, dice “Ho le mani sporche di sangue” gli sventola sotto il naso un fazzoletto vantando onore ed oneri dell’evento. Il tecnico non c’entra è solo lui Truman l’autore della fine plateale della guerra, solo lui ne ha la piena responsabilità.
Il ritratto che ne fa un attore di talento come Gary Oldman è simbolico del potere e della svolta politica reazionaria degli Usa dopo la morte di Roosevelt. Del resto l’intero cast del film è di valore e carica di verosimiglianza la trama, da Kennet Branagh a Benny Safdiem e Rami Malek, da Miguel Angarano a Josh Hartnett. Stringente la rievocazione del maccartismo negli Stati Uniti, della caccia alle streghe in cui si inquadra l’inchiesta sullo scienziato benemerito accusato di comunismo. Scorrono davanti ai nostri occhi le battute degli interrogati e della commissione, rivelatrici della il grande artigiano della bomba. Siamo in piena Guerra fredda, imperano razzismo e antisemitismo di vecchia data.
Oppenheimer, simpatizzante in gioventù del campo progressista e sostenitore della Resistenza spagnola è spiato da tempo dai servizi di sicurezza. Il presidente della commissione per l’energia nucleare, Lewis Strauss (Robert Downey), ipocrita e ambizioso, conduce una lenta opera di corrosione del curriculum del fisico, spinto anche da rancori e invidie personali. Sa bene che il suo collaboratore è intercettato da tempo per il suo spirito libertario e anche per certe frequentazioni ed amori politicamente pericolosi e non lo mette in guardia. Anzi rema contro.
Oppie osannato dalle folle nel 1945 è colto nella sua dimensione umana fatta di luci ed ombre. Non è un superuomo. Ha i suoi problemi esistenziali. Ma è illuminante il risveglio etico di fronte al genocidio di cui ha preparato le basi operative con tanta tenacia. La maschera espressiva di Cillian Murphy contribuisce a rendere penetrante la sua angoscia. Era convinto che la bomba avrebbe chiuso per sempre ogni guerra, ora la riproposta dell’esemplare all’idrogeno gli dimostra i preparativi contro nuovi nemici, l’Unione Sovietica, il comunismo.
Non accetta un nuovo incarico che minaccia la distruzione del genere umano. Si era definito “portatore di morte” nel ’45 durante un discorso a una platea statunitense festante citando un’antica scrittura indù.
Nolan ricorda bene la scena e la introduce nel film. “Alcuni risero – ricorda – altri si misero a piangere, ma la maggior parte di noi rimase in silenzio”. E ricorda il parere di Albert Einstein da sempre contrario all’impiego bellico dell’energia nucleare. In effetti, a parte quei tripudi temporanei americani, la notizia delle città giapponesi incenerite fu sconvolgente per la maggior parte dell’opinione pubblica, nel mondo.
Ora dunque il “padre” della bomba diviene un sospettato. L’indagine interna dei servizi di sicurezza lo processa, lo incalza, vuole liquidarlo, esibendo nuove prove di contatti passati con elementi ambigui, fra cui le due donne comuniste della sua vita. la psichiatra Jean Tatlock (Florence Pugh) e Kitty sua moglie (Emily Blunt), donna libera e anticonfomista vedova di un eroe antifranchista Joe Dallet caduto in Spagna. La furia maccartista non riesce a demolire del tutto la sua figura ma gli revoca l’autorizzazione alla sicurezza e ogni autorità politica. C’è chi con coraggio difende almeno la sua fedeltà di cittadino americano. Ne dà conferma lo stesso ruvido generale Groves referente militare a Los Alamos (Matt Damon). Altri per paura o convinzione contribuiscono alla sua messa al bando.
Il film di Nolan è un mosaico narrativo ricco e vario di impronta intellettuale per la parte teorica e di piglio spettacolare per gli effetti speciali e coloristici evidenti soprattutto nella pellicola IMAX a 70 mm. Ricordiamo la sequenza allucinante del test Trinidad “di prova” a Los Alamos, l’esplosione in una luce da fine del mondo nelle immense terre del New Messico espropriate ai Navajo agli Apaches ai Chicanos.
Alla fine prevalgono il sonoro e la forza documentale dei realia in bianco e nero. Immagini e dialoghi parlano alle coscienze. Sembrano soprattutto arrivare sugli schermi al momento giusto, a contestare la leggerezza con cui oggi si enfatizza una politica di guerra che la Carta delle Nazioni Unite nel 1945 sembrava aver cancellato. Il pericolo nucleare tutt’altro che svanito nel mondo, si presenta come un baratro per l’umanità. E credo che alla fine lo spettatore, benché distratto dalle invenzioni del kolossal e dalle trovate estetiche care ai cinefili, dovrà meditare con sgomento sul presente e futuro di tutti.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice,
ha da poco pubblicato per Bordeaux edizioni, il libro “Lo sguardo acuto del cinema”
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Scienziato, ebreo, comunista: la complicata vita di uno (non il solo) degli inventori dell’atomica
Andrea Bigalli
Il peso della Storia non si posa con identico carico sulle spalle degli esseri umani che la vivono. Taluni uomini e talune donne sono costretti o chiamati a portare un peso ben consistente e assai diverso da quello dei propri contemporanei. Si può pensare alle grandi scelte dell’umanità in quanto tale, le decisioni sofferte da prendere, la responsabilità delle epocali svolte etico morali o quelle nefaste dei conflitti. La genialità di chi propone storie da tradurre cinematograficamente sta anche nel recuperare, dal grande cesto del materiale storico, vicende che riassumano in sé prospettive e declinazioni delle fasi del percorso umano nei secoli.
Così alcuni grandi personaggi vivono stagioni di nuova notorietà o se ne scopre, per i più, importanza e significato. La scelta del talentuoso regista inglese Christopher Nolan di tradurre per immagini la vicenda storica di Robert Oppenheimer ha del geniale. Si coglie nel racconto di vita del fisico teorico americano l’intersecarsi tra circostanze epocali e scelte individuali, in quella cerniera tra storia ed esistenza della singola persona che ci fa capire cosa davvero sia quella materia che studiamo a scuola e che di solito facciamo fatica a considerare magister vitae.
Nella pioggia che cade sul suolo, creando cerchi concentrici, un giovane Oppenheimer non vede solo un evento atmosferico, ma la proposta di una chiave di comprensione del mondo. Nella prima parte del film si tratteggia la grande avventura della scoperta della fisica quantistica: non solo una teoria scientifica sulla realtà dell’esistente, ma un nuovo approccio di comprensione anche del fenomeno umano. Di cosa si tessono i corpi, quelli celesti come gli umani? Si può capire con quali logiche e numeri interagiscano tra di loro? Qual è la fine o il fine dell’Universo?
Oppenheimer ha studiato in Europa le nuove tesi e ha il grande merito di averle portate negli Stati Uniti, contribuendo a trasformare la conoscenza scientifica secondo prospettive inedite. Ma la storia bussa con prepotenza alla porta di ognuno: nella scoperta dell’energia in cui sussiste l’universo è insita la tentazione di adoperarla per il genere umano.
Non in tutti gli scopi a cui esso può pensare di destinarla c’è vantaggio per tutti o nessun rischio per le conseguenze. Non a caso la didascalia iniziale del film cita la figura di Prometeo (evocata anche dalla biografia da cui è tratta la sceneggiatura), ladro del fuoco agli Dei per donarlo agli esseri umani, e per questo crudelmente punito.
Il sistema militare statunitense cerca Oppenheimer per fargli dirigere il progetto per la costruzione di un ordigno nucleare con cui prevenire il nazismo, che sta elaborando un identico intento. Il vantaggio di conoscenze tedesco è evidente: si tratta di recuperare terreno, di togliere al nazismo un potenziale distruttivo assoluto. Dell’intento genocida di Hitler si sa già. Armato con l’ordigno degli ordigni diventa l’immagine della possibile ecatombe.
Lo scopo di un così grande progetto viene raggiunto, ma il nazismo sta già compiendo il proprio destino di sconfitta. A Los Alamos, dove è stato costruito il laboratorio città in cui radunare le menti scientifiche più brillanti del tempo, ci si pone il problema di cosa fare della Bomba. La guerra nel Pacifico sembra alla fine, ma il Giappone resiste strenuamente. Due sue città diventeranno il terribile campo di sperimentazione di un processo storico, oltre che tecnico scientifico: su Hiroshima e Nagasaki si mostrerà al mondo di cosa è capace il sistema bellico scientifico statunitense.
La Guerra Fredda è già cominciata. Ma quando si può constatare cosa sia realmente questa Bomba e come sia capace di distruggere senza remissione, le persone che vi hanno lavorato comprendono bene cosa sta accadendo al genere umano. Si definisce un bivio: provare sensi di colpa e quindi riflettere sull’uso politico di tale strumento di guerra o entrare senza dubbi nel meccanismo della competizione al rialzo, visto che l’Urss lo possederà presto a sua volta? Il direttore del Progetto Manhattan entra in crisi, ma i suoi sensi di colpa sono poco considerati (la scena del suo incontro con il presidente Truman è emblematica).
Oppenheimer cerca di suggerire la linea di una trattativa con i sovietici sulla limitazione della ricerca bellica, soprattutto in previsione di una tecnologia già avviata, quella che porterà alla realizzazione della bomba a idrogeno, ancora più potente. Sotto ricatto per il suo passato a sinistra e la conoscenza – e l’amicizia e i legami affettivi – con molti membri del Partico Comunista Americano, Oppenheimer finisce presto a processo, sia pure per una questione che sembra secondaria: il rinnovo della sua autorizzazione di sicurezza – che certificava l’affidabilità patriottica di un membro che lavorasse presso la pubblica autorità – diventa un giudizio etico sulla sua credibilità politica nella fase oscura della caccia alle streghe comuniste durante il maccartismo. L’esito di quella che si rivelerà una macchinazione ordita da Lewis Strauss, presidente della Commissione per l’Energia Atomica degli Usa, non si rivela, anche se la trovate nei libri di storia.
Quel che si può riflettere è quanto il regista inglese mostra sul rapporto tra ricerca scientifica e sistema militare statunitense, dove questo va inteso nella sua complementarietà con il capitalismo. È una delle tracce di lettura evidenziabili in un film in tal senso assai ricco. Un’amica e compagna, fisica nucleare, mi faceva riflettere su alcuni aspetti di fragilità della sceneggiatura. Il tormento etico di chi si è reso conto di cosa realmente stava accadendo – dal 6 agosto 1945 il mondo sarà comunque, costantemente, sull’orlo di un baratro che può inghiottirlo – non è rappresentato con tutta l’efficacia che sarebbe stata necessaria, isolando la figura di Oppenheimer in ruolo funzionale alla narrazione, ma poco rispettoso della verità storica. La contrapposizione tra i fisici di prima generazione (Einstein e Bohr, per esempio) e quelli che persero una autonomia di ricerca vendendo l’anima al militarismo è molto schematica.
E nel raccontare la creazione della Bomba il ruolo di uno scienziato come Enrico Fermi è assai sottostimato. Werner Heisenberg è ridotto a cameo: non fu proprio così. Peccati veniali di un’opera cinematograficamente molto ben strutturata, espressione di un cinema commerciale che non si dimentica che un film dovrebbe muovere sentimento, riflessione, prese di coscienza. Oppenheimer è in grado di farlo, con strutture di sceneggiatura assai articolate, come sempre nei film di Nolan, stavolta però assai più comprensibili che in precedenza (Inception, Interstellar e Tenet fanno fare molta fatica a uno spettatore evidentemente poco attrezzato come me). Per chi non ha visto il film: i piani narrativi, intersecati tra di loro come in una prospettiva quantistica (!: o più semplicemente, della memoria umana), sono tre.
L’inchiesta su Oppenheimer, ambientata in una sola stanza, quella su Strauss girata in bianco e nero, e la vicenda biografica nel suo svolgersi secondo una linea cronologica lineare, per lo più, concorrono a definire una vicenda straordinaria, che segna uno spartiacque storico impressionante. Nelle scene finali, ancora gocce di pioggia sul dialogo tra Oppenheimer e Einstein. Non più una visione altra del mondo, per conoscerlo: ma la responsabilità di aver trovato il modo per distruggerlo. Sulle spalle dei due un peso terribile. Ma lo stiamo portando tutti quanti noi. O meglio: chi governa questa realtà dovrebbe metterci in condizione di farcelo portare davvero, nelle scelte politiche di una collettività, non solo di una élite. E in direzione di altre prospettive. Si chiamano Pace, in ultima analisi.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato sabato 14 Ottobre 2023
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