I Tre manifesti per la libertà di Ahmet Altan sono tra le pagine più alte e lucide sulla difesa della libertà di parola e dello stato di diritto scritte negli ultimi decenni. Altan, uno dei più importanti giornalisti e romanzieri turchi, è stato condannato all’ergastolo, assieme a tanti altri giornalisti, con l’accusa di sovversione, e cioè di aver ispirato e in qualche modo partecipato al tentativo di colpo di stato da parte di una minoranza delle forze armate del luglio 2016. In queste pagine Altan smonta pezzo per pezzo, con precisione e con sarcasmo esemplare, le tesi dell’accusa e dimostra che l’involuzione autoritaria della Turchia di Erdoğan è ormai una realtà di fatto che sta trascinando con sé anche l’imparzialità del sistema giudiziario e la sua indipendenza dal potere politico.

Come è noto, Erdoğan ha definito il golpe del 2016 un “dono di Dio” perché gli ha permesso di avviare un gigantesco repulisti, in realtà su liste di proscrizione già note prima del golpe stesso, di oppositori e critici del suo regime autoritario e fondamentalista: giornalisti, insegnanti e docenti universitari (come il fratello dello stesso Altan), militari e burocrazia statale, parlamentari (come è successo al Hdp, il partito filo curdo), tutti classificati come pericolosi per lo Stato. Una delle vittime più illustri è stato Can Dündar, il direttore del quotidiano laico Cumhuriyet, che dal suo attuale esilio tedesco ha scritto che ormai si rischia la prigione anche per un tweet. Lo stesso Dündar prima di fuggire in Germania è stato arrestato per aver rivelato il traffico di armi, travisate da aiuti umanitari ai siriani, tra lo Stato turco e i terroristi dell’Isis. Con la vittoria presidenziale e parlamentare del 24 giugno Erdoğan può adesso farla finita con la Turchia laica di Atatürk e proseguire il disegno di una Turchia neo-ottomana e fondamentalista, democratica certo ma priva di libertà fondamentali come quella di opinione e di parola.

A leggere bene queste pagine, indirizzate a un pubblico ministero di cui non si fa mai il nome, si ricordano i meccanismi delle purghe staliniane degli anni 30. Lo stesso pubblico ministero turco a cui si rivolge Altan ricorda il famigerato accusatore russo Vyšinskij e i suoi procedimenti giudiziari. Nei processi politici dei regimi autoritari, infatti, non si tratta più di dimostrare materialmente la colpevolezza dell’imputato, le prove non hanno più importanza, né lo Stato ha più l’obbligo di riaffermare lo stato di diritto quando si tratta di colpire il critico, l’oppositore politico, il laico non allineato. Altan è stato accusato di aver lanciato “messaggi subliminali” ai golpisti, di aver criticato l’Akp (come se in uno stato dove regna la legalità fosse un reato), di conoscere alcuni tra i presunti responsabili o fiancheggiatori del golpe. Un eccellente conoscitore della Turchia come Marco Guidi ha parlato di uno stravagante reato per “proprietà transitiva”.

Ad Altan è stato imputato di sapere e di approvare il tentativo del colpo di stato, per il pubblico ministero è sufficiente che il giornalista abbia scritto che il governo autoritario di Erdoğan non durerà a lungo (per la semplice previsione o augurio che prima o poi la legge e la giustizia riprenderanno il sopravvento) perché si possa essere accusati in modo immaginifico di essere dalla parte dei golpisti. Un po’ come se Antonello Venditi, che nel 1978 in Bomba non bomba cantava “la prima bomba scoppiò a Bologna”, venisse accusato di connivenza con gli attentatori alla stazione di Bologna del 1980.

Nel febbraio di quest’anno Altan ha scritto ai suoi giudici: “Vostro onore, sono venuto qui oggi non per essere giudicato, ma per giudicare. Giudicherò coloro che, a sangue freddo, hanno ucciso il potere giudiziario per poter imprigionare migliaia di innocenti. Io ho il diritto di parlare a nome delle migliaia di innocenti che non solo non hanno organizzato nessun golpe, ma non hanno nemmeno modo di protestare contro le persecuzioni di cui sono fatti oggetto”.

Su queste basi grottesche Mehmet Altan è stato condannato all’ergastolo: “ecco la legge della nuova era: è vietato criticare Erdoğan. Se lo fate, finirete i prigione. Non sono in galera perché sono un criminale, sono in galera perché lo stato di diritto dei criminali è al potere”.

Per il presidente turco, per il quale la democrazia è come un autobus, “la si usa per arrivare dove si vuole e poi si scende”, la vittoria alle elezioni significa esercitare de jure quello che esercitava già fatto; si tratta di poteri notevolissimi, per esempio Erdoğan potrà revocare a sua volontà ministri, alti funzionari statali, diplomatici, potrà nominare 12 dei 15 componenti della Corte Costituzionale, decretare lo stato di emergenza ed emanare decreti esecutivi senza l’approvazione parlamentare.

Molto probabilmente la situazione di Altan (nato nel 1950) non cambierà, intanto rimane la lettura di questi manifesti per la libertà scritti da una prigione turca che ci esortano, come europei, alla difesa di una delle libertà più importanti che il pensiero filosofico occidentale ha sviluppato. Nell’ultimo capitolo del Trattato teologico politico Spinoza scriveva: “se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare quello che vuole, ma ciascuno è per diritto imprescrittibile della natura, padrone dei suoi pensieri, ne segue che in un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse, anzi contrarie opinioni l’obbligo di parlare esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere”.

Sebastiano Leotta, docente al liceo scientifico “Cornaro” di Padova