Ivan Della Mea
Ivan Della Mea

Tanto si sa

non ci sarà canzone

che possa fare la rivoluzione.

[I. D. M., Ciò che voi non dite]

 

Ivan Della Mea, invece, di rivoluzioni ne ha fatte parecchie con le sue canzoni. Non solo quelle di lotta che lo hanno reso tra i personaggi simbolo della canzone militante italiana, artefice, insieme a Gianni Bosio e al Nuovo Canzoniere Italiano, della riscoperta e del recupero della tradizione popolare. Ma anche quelle più intime, legate al racconto biografico o alla descrizione di una società in trasformazione, di cui mettere in scena le sofferenze, le piccole o grandi tragedie quotidiane, le storie di vita della Milano da ringhiera negli anni successivi al boom economico o di un’Italia trafitta da scioperi e lotte sociali, un’Italia di emigrati che dal sud salivano al nord e ci morivano, come Ciriaco Saldutto. Anche e perfino canzoni d’amore.

Ivan scompare sette anni fa, il 14 giugno 2009. Luigi (questo il suo nome all’anagrafe), nato a Lucca nel 1940 ma poi trasferito in giovanissima età a Milano, il suo esordio come cantante lo racconta in Una storia cantata di Cesare Bermani. “Come imitatore di Adriano Celentano e Paul Anka – dice – cantavo in osteria, in tante osterie inframmezzando con arie liriche, con romanze o con canzoni tipiche dell’osteria milanese ed era sempre una sfida a chi ne cantava di più e meglio”. Erano gli anni 1957-1958, anni di grandi trasformazioni nel mondo musicale: il 1958 sarà decisivo, da molti considerato come il momento della nascita della canzone d’autore in Italia: nel ’58 prendeva il via l’esperienza di Cantacronache a Torino; la Dischi Ricordi cominciava l’attività discografica dando inizio con Giorgio Gaber al filone dei cantautori, e dal Festival di Sanremo la canzone vincitrice, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, esplodeva nelle case degli italiani generando un entusiasmo collettivo. Le canzoni avevano un pubblico e presto sarebbero diventate un business. Peggio per quelli che non erano alla moda.

bavioIvan è iscritto al Pci e tutte le domeniche diffonde l’Unità. Frequenta il Convitto Scuola Rinascita, bigia l’istituto tecnico e cerca un lavoro. “Lavoravo in una piccola fabbrica elettrodomestica – dice –. Si parlava di sport e di donne o meglio di uomini: erano quasi tutte donne là dentro e l’uomo era considerato un “oggetto”. Io ero un oggettino. Ero il più giovane apprendista della fabbrica”. Poi cambia lavoro: operaio elettromeccanico e infine fattorino. Ha da poco terminato le Ballate della violenza: “Allora non avevo né chitarra né registratore e quindi le canzoni, le ballate, me le fissavo nella memoria mentre camminavo per Milano”. Le canta per la prima volta davanti a Carletto Colombo, direttore del teatro Gerolamo e a Fiorenzo Carpi, con l’idea di farci uno spettacolo, ma la cosa non va in porto. Le propone anche a Cantacronache, ma niente, gliele bocciano pure loro. Alla fine le ascoltano Roberto Leydi, Gianni Bosio e Umberto Eco: “Io mi vergognavo, non volevo cantarle: Sono robe strane – dice –. Poi mi sono nascosto dietro a un angolo dove c’era un pianoforte e ho cantato come un fatto liberatorio queste Ballate della grande e la piccola violenza”. «Ivan cantava la “piccola violenza” del mondo familiare, e – come suo fratello Luciano, un altro maestro della nostra cultura e della nostra storia – ci vedeva le radici della violenza maggiore», scrive Alessandro Portelli. C’era alla base l’idea di raccontare la grande violenza del fascismo attraverso la piccola violenza domestica di un padre, brigadiere fascista, divenuto alcolizzato e che alza le mani sulla moglie.

Cari signori, vi prego ascoltate

questa storia che canterò.

Vi parlerò delle legnate

che mia madre sempre buscò.

 In una stanza senza stagioni,

dove regnava la miseria,

la vita era cosa assai seria

con un padre re dei beoni,

 il quale sbronzo, quasi ogni sera,

vagava nudo in quella stanza;

canticchiava “Faccetta nera”

I ricordi ricostruiscono un’infanzia e un’adolescenza sofferta, ma rievocano anche l’aura di un periodo storico: “Nella figura del padre, fatto appunto rivivere, insieme con un arco di storia nazionale, il giorno successivo alla sua morte, si ritrovano, indubbiamente, molte altre figure di padri: gerarchi o semplici passionali della dittatura, frustati ed impotenti nel loro fanatismo, che non esitano a scaricare il loro odio e la loro violenza sugli inermi e sui più deboli, incarnando quel credo che fu l’esaltazione e la barbarie del gran Fascismo”, scrive Teresio Zaninetti.

Lo stesso padre che Della Mea racconta nella sua recente autobiografia Se la vita ti dà uno schiaffo.

Un giorno “arrivò un tipo tutto figurino, tutto in ordine: stivali lustri, pantaloni ammodo, camicia nera, baffi ordinatissimi, capelli nerissimi pettinati lisci e rilucenti di brillantina. Il tipo si pose a gambe larghe davanti al bimbo, lo guardò per bene, sorrise e disse: – Mi dicono che tu saresti il mi’ figliolo, ma non è possibile, non mi somigli punto -. Si girò e se ne andò”.

L’album lo pubblicherà poi nel 1962 l’etichetta I Dischi del sole, Ivan aveva appena inciso i Canti e inni socialisti, prodotto nello stesso anno per il 70° anniversario della fondazione del PSI. È chiara da subito la sua vocazione: cantare la storia di un Paese, dalla parte dei più deboli, dando corpo, così, a un impegno politico e artistico. Da qui inizierà la collaborazione con il Nuovo Canzoniere Italiano: “Io cantavo le Ballate da solo – scrive in Una storia cantata – in spettacoli con Michele L. Straniero, Fausto Amodei e Sandra Mantovani. Ricordo che si fecero le feste de l’Unità di Milano, Bergamo e Brescia […]. Poi cominciai a scrivere canzoni in milanese”.

Nel 1966 incide l’album Io so che un giorno e racconta di un cambiamento; questo miracolo economico ormai agli sgoccioli rivela il suo lato oscuro:

Io riderò

il mondo è bello

tutto ha un prezzo

anche il cervello

“Vendilo, amico,

con la tua libertà

e un posto avrai

in questa società”.

 Viva la vita

pagata a rate

con la Seicento

la lavatrice

viva il sistema

che rende uguale e fa felice

chi ha il potere

e chi invece non ce l’ha.

La grande macchina del boom economico si era inceppata mostrando la fragilità dei suoi ingranaggi: la recessione del 1963-64 che seguì la fine del miracolo era la realtà che si affacciava agli occhi degli italiani, con il suo carico di cinismo e di illusorio benessere. La fase di crescita post-bellica si era conclusa in fretta e cominciavano a emergere i segni di una crisi strutturale dell’economia, che sarebbe proseguita per lungo tempo. Prendevano spazio, poi, nuove forme di schiavitù: il consumare di tutto e in fretta, la costrizione dei turni di lavoro, il guadagno a tutti i costi.

La metà e la fine degli anni Sessanta sono per il Paese un momento di svolta segnato dall’irrompere di nuovi fermenti indirizzati al raggiungimento di libertà, garanzie e diritti in campo sociale e culturale. Ma anche terreno di scontri, scioperi, manifestazioni combattute in nome di ideali e valori che avevano come comune denominatore l’idea del rinnovamento. Ricostruendo il clima culturale di quegli anni, nel 1967 usciva in Italia L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, pubblicato in America tre anni prima. Questo libro, che vendette più di centomila copie in un anno, poneva al centro la questione del principio autoritario proprio della società neocapitalistica, e lo contestava. Parlava di una democratica non-libertà, dominante nella civiltà industriale avanzata, risultato del progresso tecnico.

L’incubo di una società tecnologica e disumanizzata, priva di libertà si ritrovava anche nel romanzo e poi film Farenheit 451, di François Truffaut (1967), mentre lo stesso Marco Bellocchio con La Cina è vicina (1967) riprendeva il tema già affrontato nel rivoluzionario esordio de I pugni in tasca (1965), ovvero la crisi della famiglia borghese con le sue ipocrisie e finzioni.

Erano i germi da cui poco dopo sarebbe esploso il movimento giovanile di contestazione dei principi autoritari, fondamenta dell’organizzazione sociale, familiare, culturale, educativa, con le Università e la scuola.

cara moglieNon a caso nell’ottobre di quel 1966 usciva, sempre per I Dischi del Sole, il 45 giri O cara moglie, canzone che si faceva portavoce di un disagio sociale, dei diritti sul lavoro calpestati in un’Italia che si avviava a una stagione di scioperi e dure battaglie. Nata “in una notte a Torino, per aiutare l’attività anti-crumiraggio che gli operai Fiat avevano organizzato per la riuscita di uno sciopero; […] una canzone di tutti, un momento della lotta comune”, dirà Della Mea. Ma se è vero che questa canzone è davvero rappresentativa di quel fermento politico, della necessità di una rivolta che non tarderà a manifestarsi, è anche la storia più umana di un operaio licenziato, del ricatto dei padroni che costringevano i lavoratori a rientrare nelle fabbriche e a chinare il capo. Ma questa vicenda è tutta racchiusa «nel calore di una cucina operaia – scrive Alessandro Portelli –, condivisa con l’amore familiare, con la proiettività nei confronti del figlio che si trasforma in orgoglio e insegnamento. Alla grande violenza della repressione e dei licenziamenti risponde, stavolta, la “piccola” resistenza dei sentimenti, dell’amore, della dignità». C’è, dunque, anche in questo spaccato di autore militante, un pezzo di quel mondo popolare, “di ringhiera” che sarà tipico della poetica di Della Mea:

O cara moglie, stasera ti prego,

dì a mio figlio che vada a dormire,

perché le cose che ho io da dire

non sono cose che deve sentir.

Io so che un giorno, infatti, nasce proprio da questa realtà più intima e familiare: Ivan evoca un periodo passato in cui era ancora un bambino, gli anni Cinquanta, attraverso una serie di ballate in dialetto milanese dedicate a Gianni Bosio, storico, animatore culturale, fondatore e direttore della rivista Mondo operaio, direttore delle edizioni “Avanti” poi “Del Gallo” e dei “Dischi del sole”, ma anche dell’Istituto Ernesto De Martino. Con lui ci sono inoltre il fratello Luciano, Elio Vittorini, la Milano popolare, immersi nello scenario delle grandi vicende italiane.

Sent on po’ Gioan, te se ricordet, richiama con amarezza le speranze del 1948, la prova elettorale, la sconfitta bruciante con la Democrazia Cristiana che si aggiudicava la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi, diventando il principale partito italiano per quasi cinquant’anni fino al suo scioglimento nel 1994:

l’ha vint el pret cont i so beghin,

l’ha vint el pret cont i ball e i orazion.

Ma ind i oeucc di tosann gh’era la guera;

“Bandiera Rossa”, Gioan, te se ricordet

Te se ricordet…

E poi Te se ricordet, Gioan, de me fradel, dedicata al fratello Luciano, “faccia gialla e occhiaie in fondo al naso”, quando la sera tornava a casa dal lavoro stanco morto, con la fame fuori dai denti, mangiava una pera e un po’ di grana prima di andare alla Casa della Cultura. Un giorno aveva annunciato che l’azienda dove lavorava era stata occupata. Il racconto intimo e umano del fratello si intreccia con quello dei fatti pubblici e collettivi: il 1948 e l’attentato a Togliatti, il giro di Francia e la vittoria di Bartali, i Democristiani che vincono le elezioni. E poi il 1950: l’anno santo con la Madonna su e giù per l’Italia, Papa Pacelli, il Giubileo, la “santa crociata contro i comunisti”.

Le canzoni si fanno storia e cronaca di fatti reali a cui si mescolano i racconti più personali e privati che hanno sempre Gioan come interlocutore: in El Diluvi c’è un grande affresco della terribile alluvione del Polesine dell’inverno 1951-52: case allagate e dispersi a centinaia, a fermare il Po arriva anche l’esercito e pregare non serve a niente, si vive una vita che è già un inferno.

In Mangia el carbon e tira l’ultim fiaa, poi, si ricorda il disastro della miniera di Marcinelle del 1956, dove persero la vita anche tanti italiani andati in Belgio in cerca di una nuova vita:

ciapa el bigliett, teron, forsa, gh’è ’l treno!

e va a crepà ind el fumm de la minera…

Gh’è anmò speransa e fiada, fiada fort

e crepa svelt, che ti te set già mort.

Lavoro, fatica di tirare a campare, emigrazione, temi cari a Della Mea. Nello stesso album, la canzone A quel omm, invece, si discosta da tutto e si ferma sul ricordo struggente di Elio Vittorini che quell’anno moriva. La voce naturale e autentica di Della Mea fa di questo ritratto cantato una poesia che riesce a commuovere:

A quel omm, che incuntravi de nott

in vial Gorizia, là sul Navili,

quand i viv dormen, sognen tranquili

e per i strad giren quei ch’inn mort […]

 A quel omm, ma te seret on omm,

quater strasc, on po’ d’ombra,

nient’alter

La intona anche la piemontese Carla Mignone, cantante e attrice più nota come Milly, con un’impostazione più teatrale. Alla Rai la presenta come canzone di un giovane autore.

Gianni Bosio è di nuovo protagonista nell’album Se qualcuno ti fa morto del 1972. Diverse sono le canzoni che lo rievocano, mancato l’anno prima, nel dolore dell’elaborazione del lutto: “Se qualcuno ti fa morto un motivo c’è… costa poco piangere, capire costa di più”, nel giorno del suo funerale: “Oggi Gioan è morto, non è morto, è vivo per quelli che vogliono capire”, e in E duman ghe fan la festa: “domani Gioan te fan mort”:

E poi c’è il Gioan che ha impresso un segno profondissimo nel mondo della cultura, con le sue idee nuove e destabilizzanti, legate alla valorizzazione del mondo popolare: “Canta Giovanni che hai capito che questo cantare color della terra vuol dire creare cultura, anche per noi che abbiamo la testa piena di cultura, ma quella dei padroni” (A Costabona):

Una rivoluzione importante e necessaria, che Giovanna Marini ben ricostruisce: “L’ipotesi di Gianni Bosio era questa – scrive –: il popolo deve diventare cosciente della propria cultura. Le canzoni sono veicoli di cultura, comunque siano, qualsiasi provenienza abbiano. Se noi cerchiamo e troviamo queste canzoni e le riproponiamo alla gente, questa le riconoscerà, se ne ri-impossesserà, perché scoprirà che le sono utili, esattamente come sono utili a noi, e prenderà via via sempre più coscienza del proprio potere. Allora cercherà di intervenire sulle scelte del potere politico, cercherà di guidare l’opinione pubblica”. Un sogno, un progetto che impregnerà tutto il lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano.

Il dolore per la perdita di Bosio ritorna nel disco a ondate, inframmezzato da canzoni che sono quasi tutte lettere personali. Tra tutte spicca quella alla moglie Angela, nella quale emergono i sentimenti, le emozioni e la vita che nonostante tutto va avanti: un bacio strappato prima di andare a letto, la stanchezza dopo il lavoro a fine giornata, la felicità delle cose semplici:

Lé la me dà un basin e la va in lètt

mi spèri che la dorma in alegria,

quatada in fin al nas sota i cuvèrt,

“te vöri bèn, ma tant, Angela mia”

(Lettera ad Angela)

Con La balorda del 1972 protagonista è la cronaca di un’Italia stravolta e pesantemente trasformata dagli effetti del boom, di cui a farne le spese sono i più fragili come Ciriaco Saldutto, quindici anni:

alunno alle medie,

scuola Pacinotti,

venuto di Puglia, “terrone” immigrato:

Torino lo boccia e lui s’è impiccato

(Ballata per Ciriaco Saldutto)

La scuola, in quest’Italia misera, non è una scuola che accoglie le differenze, come diremmo oggi inclusiva, ma è un luogo di omologazione e di repressione per costruire servi istruiti alla cultura dei padroni borghesi, costretti a dimenticare le proprie radici: «La tua cultura e del tuo paese, sia chiaro, “terrone”, va buttata via». E a questo, o ci si adegua oppure si viene esclusi. E l’esclusione è definitiva.

Quest’attenzione al mondo degli emigrati ritorna anche in brani come Con la lettera del prete nell’album Ringhera del ’74 che mette in luce anche il piglio critico di Della Mea nei confronti della società e della Chiesa:

Dai lavora sei un terrone

dai lavora che tu sei forte

dai a Dio qualche soldo

per comprarti il tuo aldilà.

Un infortunio renderà questo lavoratore, arrivato al nord con la lettera di un prete per trovare impiego, dopo fatica e qualche sodo guadagnato, un paralitico, costretto a tornare al sud, senza guadagni né dignità, ridotto a chiedere la carità sui gradini di una chiesa.

 

La canzone Ringhera dà il titolo all’album contenente “canzoni milanesi vecchie e nuove”. Vi si trovano, infatti, dei veri capolavori: oltre a Ringhera di cui si è già scritto [http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/el-quinto-regimiento-la-sua-epopea-e-ivan-della-mea/], come anche della Ballata per l’Ardizzone [http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/giovanni-ardizzone-lera-el-so-nom-il-nuovo-canzoniere-e-gli-anni-60/], ci sono, tra le tante, El me gatt, Mio dio Teresa tu sei bella, La canzon del Navili, Quand g’avevi sedes ann, dalle quali emerge l’amore dell’autore verso la sua Milano, con i suoi quartieri popolari, il bello e il brutto di una città in piena trasformazione, la stessa che tempo prima anche Luciano Bianciardi aveva descritto nel romanzo La vita agra [http://www.bibliomanie.it/la_vita_agra_di_luciano_bianciardi_chiara_ferrari.htm], con le sue case di ringhiera, i fatti veri e anche truculenti di una malavita ordinaria, la passione che diventa morte.

Mio dio Teresa tu sei bella è un storia tanto dolorosa quanto attuale, una sorta di femminicidio in cui la protagonista Teresa muore uccisa dal proprio compagno che non accetta di vederla “sfiorire” “per un cancro al polmone”. “Io ci ho detto: Sai Teresa tu per me sei la mia stella/ questo male ti fa offesa” e così, quell’uomo che tanto l’amava e la vedeva bella, dopo averla ammazzata attende l’arrivo della pantera che lo porti via a scontare la sua pena.

Poi in La canzon del Navili c’è la Milano raccontata con lo sguardo di un vecchio sfiduciato e fiaccato dalla fatica, che sul naviglio ha lavorato una vita a caricare la sabbia e che in quel canale ha visto solo spazzatura, acqua sporca e marcia:

Gh’è chi dis che l’è bella quest’acqua marscia, ‎

sto scarich publich de cess, de roera, ‎

ma mi quand ’riva giò la sira ‎

me senti el stomech bell e saraa

Ma poi c’è anche chi, come il figlio Giovanni, quell’acqua e la Milano dei Navigli, li vede diversi, e chissà che non abbia ragione lui.

Il tema della fatica di vivere ritorna anche in Quand g’avevi sedes ann, storia al femminile, di un’altra Teresa che rimpiange la morte del marito‎ che era sì un poveraccio, ma certo meglio di niente, del vuoto, del peso di trascinare una vita di solitudine:

lu l’è mort, lu el gh’è pu ‎

g’hoo du fioeu e’l lavoràa ‎

e tris stanz ce nettàa ‎

e un vintmila de pension

 Ma’l me Toni l’è mort ‎

Ch’el pareva un scior ‎

col berrett ce controllor.

E la Milano della mala è tutta in El me gatt, ambientata in Via Savona, quartiere di Porta Genova, storia di una terribile punizione riservata alla Ninetta, una vecchia megera colpevole di aver ucciso il gatto del protagonista. Lui andrà, poi, a trascorrere le sue notti al riformatorio in quel di Filangieri al numer duu, ovvero il carcere di San Vittore.

Tra i brani più celebri di Della Mea, diversi sono gli autori che l’hanno riproposta, come i Gufi,

Nanni Svampa e Mauro Ermanno Giovanardi che la registra nell’album Cuore a nudo (2007).

Tra gli ultimi brani, del 2000 è Il capitano dall’album La Cantagranda, che è un approdo sereno e pacifico, dopo un viaggio in un mare in burrasca:

E adesso so capire, e rido, e rido forte,

Il canto muore e resto qui, con me, con la mia sorte.

E adesso so capire, e rido, e rido forte.

 “Signori”, dico ora, “vi parla il capitano,

il mare è buono, il vento tiene, a bordo che salpiamo.”

“Signori”, dico ora, “vi parla il capitano”.

E in questo viaggio tempestoso, ma libero, vitale, energico, una luce ha sempre brillato anche nelle notti più scure. E ha rischiarato il cammino, e ha illuminato strade e vie che altri non percorrevano, e ha acceso fuochi, passioni, convinzioni, e ha nutrito sogni, e ha ispirato genti, e risvegliato speranze. Perché il mondo fosse un mondo migliore, più equo, più giusto:

 Noi abbiamo un bell’orto

che può crescere assai bene

se ci lavoriamo tutti

dico tutti quanti assieme

 senza voglie di potere

personale e opportunismo

se vogliamo questo, bene,

io lo chiamo comunismo

Perché io ti penso sempre

e ti cerco con amore

e ti sogno ancora

come un segno rosso rosso un fiore

 ma io che ti penso sempre

e ti cerco con amore

io ti sogno ancora

come un segno rosso rosso un fiore

io ti sogno ancora

come un segno rosso rosso un fiore

(Rosso un fiore in Ho male all’orologio, Dischi del Manifesto, 1997)

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli