Il 19 ottobre 1944, in via Maqueda, all’altezza di palazzo Comitini, l’esercito sabaudo sparò sulla inerme folla: 24 morti e 158 feriti! Perché, dopo oltre tre quarti di secolo, si remora a cercare la verità? A chi è servita quella mattanza di innocenti? Chi diede, fra gli alti gradi militari e nel palazzo della politica, l’ordine di sparare?
Più il tempo passa e più diventa difficile, almeno per noi e per i pochi superstiti e parenti delle vittime, dimenticare il gravissimo e orrendo fatto di storia siciliana che lo storico Francesco Renda definì “la prima grande tragedia dell’Italia liberata” (i palermitani di allora la chiamarono “la strage del pane”, perché la folla manifestava contro il carovita chiedendo, appunto, pane e lavoro).
Le istituzioni repubblicane e certa storiografia, invece, sono immerse nel “silenzio” più cupo e nessuno si prende la briga di smuovere le acque per cercare, a 80 anni dai tragici fatti, la verità storica e rendere davvero omaggio alla memoria di chi venne crudelmente ucciso o ferito. La tragedia si consumò nella tarda mattinata di giovedì 19 ottobre 1944, nel giro di trenta-quaranta secondi, nella centralissima via Maqueda, esattamente davanti Palazzo Comitini, attuale sede della Provincia di Palermo e allora sede della Prefettura e dell’Alto Commissariato per la Sicilia (la Sicilia era stata da qualche mese restituita dalla amministrazione occupante angloamericana al governo italiano del Regno del Sud). Una folla di manifestanti, senza armi, giunse davanti la Prefettura proveniente da via Cavour per reclamare pane e generi di prima necessità e anche per denunciare l’imperante mercato nero dominato da “intrallazzisti” e speculatori senza scrupoli.
Una larga fetta di scioperanti era costituita da impiegati comunali che chiedevano l’estensione, anche a loro, degli aumenti di stipendio che il governo centrale aveva riconosciuto agli impiegati statali. Dunque, la massa di popolo, esasperata, rumoreggiava e chiedeva di essere ascoltata. I più minacciosi brandivano randelli e rami “strappati” dagli alberi di piazza Massimo. Nulla di più. Gli animi, però, si esagitarono quando si apprese che il prefetto on. D’Antoni e l’alto commissario on. Aldisio (ex ministro badogliano molto legato a don Luigi Sturzo) erano a Roma. Un viceprefetto, che in quel momento era la più alta carica governativa in città, in preda a paura e preoccupazione, invece di tentare di sedare gli animi, chiamò per telefono il comando militare della Sicilia e chiese l’invio di un congruo contingente di soldati. Il nucleo di carabinieri armati in servizio davanti al portone di palazzo Comitini, evidentemente, a suo giudizio, non era in grado di fronteggiare la situazione.
La richiesta, stranamente, fu prontamente accolta dai comandi della Sabaudia (il più alto in grado era il generale Giuseppe Castellano, colui che l’8 settembre del 1943 firmò, a Cassibile, l’armistizio con americani e inglesi). Arrivati in via Maqueda, provenienti dalla caserma “Scianna”, dopo una “misteriosa” sosta davanti la Questura in piazza Vittoria, i circa 50 soldati del 139° fanteria (divisione Sabaudia), quasi tutti sardi e comandati da un giovane tenentino siciliano di Canicattì, armati ciascuno di due pacchetti di cartucce e bombe a mano tipo Breda, senza alcuna provocazione (come mi ha raccontato 50 anni dopo l’ex soldato sardo Giovanni Pala, che si rifiutò di premere il grilletto del suo moschetto) cominciarono all’improvviso a sparare con i moschetti e a tirare bombe a destra e a manca. Una carneficina dal tragico bilancio: 24 morti e 158 feriti per la maggior parte ragazzi. Nessun morto e nessun ferito grave fra i soldati! L’eccidio, per ferocia e crudeltà, ha pochissimi precedenti nei 164 anni di vita unitaria italiana.
Sicuramente i militari ubbidirono a un ordine preciso e spietato, forse premeditato. Sul grave fatto di sangue, da subito, scese il silenzio più assoluto.
Il processo-farsa che si tenne, il 22 febbraio del 1947, presso il tribunale militare di Taranto si svolse in poche ore in un clima surreale. I mandanti non sono stati mai individuati e i pochi soldati portati alla sbarra furono tutti assolti “per essere, i delitti, estinti da amnistia”. Oggi, si può affermare, dati e carte alla mano, che si può arrivare, se si vuole, alla verità. Che potrebbe risultare del tutto diversa di quella “propinata” frettolosamente dalle autorità pro-tempore e condita da silenzi omertosi, omissioni, sabotaggi (della strage, dei morti e dei feriti, negli archivi non c’è nemmeno una foto!), coperture e depistaggi.
Nel 1994, la Provincia di Palermo ha fatto collocare nell’atrio di palazzo Comitini, su proposta di chi scrive (che ha redatto il testo) e dei familiari delle vittime, una lapide con i nomi e l’età dei 24 caduti. Il Municipio di Palermo, solo circa dieci anni fa, ha fatto affiggere una targa-ricordo in vicolo Sant’Orsola, ad angolo con la sede della Provincia, dove morti e feriti caddero a decine. Nessuna strada cittadina, a tutt’oggi, è stata intestata alle vittime della strage.
È auspicabile, infine, che le istituzioni della Repubblica (a qualsiasi livello) si prodighino perché sull’intera vicenda, finalmente, venga fatta piena luce sia per onorare la memoria delle innocenti vittime (tra cui molti ragazzi e due donne lavoratrici morte per l’esplosione di una bomba dentro i locali della loro stireria) che per colmare un grave “vuoto” storico frutto dell’oblio che, in Italia, caratterizza, purtroppo, tutte le stragi di Stato e non solo. Infine, è arrivato il momento, accogliendo il pressante invito di cittadini, superstiti e parenti delle vittime, di rivolgere un caloroso e sincero appello al Presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, affinché conceda, in memoria delle 24 innocenti vittime, una medaglia d’oro al valor civile. Un doveroso riconoscimento per non dimenticare.
Lino Buscemi
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2024
Stampato il 11/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/palermo-la-strage-del-pane-e-un-silenzio-lungo-80-anni/