Mattia Santori – sarà banale dirlo ma è così – è stanco e soddisfatto. La prova è riuscita. Alla grande. Il tour politico delle Sardine, che ha attraversato Veneto, Marche, Puglia, Campania, Toscana e Liguria (un viaggio per riscoprire i valori della politica, partito da Casa Matteotti a Fratta Polesine e concluso nella casa museo di Sandro Pertini a Stella), ha rincuorato non poco i leader del movimento, che solo a maggio scorso, dopo aver prodotto un denso manifesto valoriale, si erano presi una pausa di riflessione. Non per gettare le armi, come qualcuno maliziosamente preconizzava, ma per meglio definire tempi e modi di una politica nuova. Una politica «che rifugga dalle mutevoli opinioni, dalla sindrome dei sondaggi, dalla facile propaganda, tutti elementi che hanno avvelenato il dibattito politico quando non proprio i pozzi delle democrazia», ci dice Santori. E quando gli chiediamo un bilancio del tour, il volto più noto delle Sardine risponde che «è difficile riassumere questa esperienza in poche parole. Trenta ragazzi e ragazze si sono messi in gioco, con molto più coraggio rispetto ad adulti politici, hanno preso uno zaino e hanno viaggiato per 2000 km in 7 regioni del Paese, e la parola d’ordine è stata “ascolto”. I territori hanno voglia di fare politica, hanno voglia di ritornare ad avere coraggio e mettersi in gioco, non essere più spettatori, ma protagonisti del loro futuro». Con Santori parliamo del prossimo referendum (si terrà a settembre) sulla riduzione dei parlamentari, snodo delicatissimo per la democrazia italiana, eppure sostanzialmente ignorato dai media e dagli stessi proponenti. Come fosse una partita già vinta a tavolino.
Una domanda prima di tutto: che effetto ti fa l’associazione dell’espressione della volontà popolare, ovvero il parlamento, al termine dispregiativo “poltrona”?
Chiaramente, è un’associazione che non mi rappresenta. Parlare di “poltrone” è una semplificazione e come tutte le semplificazioni rischia di prestare il fianco al populismo. E sebbene quest’associazione è ormai dilagante nel dibattito politico – in cui la tendenza alla semplificazione concettuale è un dato ormai assodato – resta totalmente fuorviante: il termine “poltrona” viene utilizzato come strumento di attacco dell’avversario politico di turno o dei politici in generale generando una delegittimazione del lavoro fondamentale e anche assai difficile del politico. Infatti, rappresentare l’Italia in parlamento, non occupare una poltrona, è il più grande onore che possa esserci. Certo, richiede grandi responsabilità: le Sardine hanno sempre contrapposto all’antipolitica il rispetto per le istituzioni. Hanno chiesto alla politica di riappropriarsi della complessità. Hanno richiamato alla responsabilità e continuano a farlo continuamente. Nel nostro dibattito ideale non c’è spazio per il termine “poltrona”. Pertini diceva che la società chiede ai politici di dare il buon esempio; è bene tenere presente che quando personaggi pubblici utilizzano le parole in un determinato modo, questo ha profonde ripercussioni su tutta la società.
Il 20 settembre gli italiani saranno chiamati a votare il referendum sul taglio dei parlamentari assieme ad un composito turno di elezioni regionali e amministrative. Non vedi il rischio che il senso del voto referendario sia annegato nella polemica politica quotidiana?
Penso che il dibattito su questo referendum sarà abbastanza scollegato dalla tenuta o meno del governo in quanto il tema oggetto del referendum è molto trasversale e accomuna partiti (spesso definiti “populisti”) che non coincidono con le forze che compongono la maggioranza e l’opposizione. Inoltre, essendo il tema appunto molto “populista” o perlomeno facilmente rappresentato come tale, i partiti hanno molto più interesse a schierarsi a favore o contro in base a un mero ritorno elettorale, abbassando, chiaramente, il livello del confronto.
I fautori del Sì giocano la partita referendaria in tono minore. Sentono il risultato già in mano. Non credi che occorra in qualche modo stanarli? Quale dovrebbero essere a tuo avviso le mosse del fronte del No? E in questa partita che ruolo possono svolgere le Sardine?
C’è una mossa possibile: fare informazione. E sarà questo il compito delle Sardine. Dobbiamo parlare di democrazia parlamentare. So bene che è complesso, però sono certo che alzare l’asticella del dibattito – cosa che spesso fa paura – paghi sempre e comunque è il compito della politica. Il nostro modello istituzionale ha un grande merito in termini di rappresentatività. Tagliando il numero dei parlamentari si mettono in discussione le fondamenta della democrazia parlamentare, con la sua capacità di esprimere il pluralismo e la complessità presenti nella società. In un modello maggiormente orientato alla decisione che alla discussione, come quello cui stiamo andando incontro negli ultimi anni, temo venga sempre più sminuito un elemento, se non l’elemento imprescindibile, della cosa pubblica. Questa riforma costituzionale riconduce i problemi a una mera dimensione organizzativa: il problema attuale dei nostri rappresentanti non è il sovrannumero, ma la qualità del dibattito.
I fautori della riforma costituzionale sostengono che un parlamento più ridotto sarà più economico e più efficiente. Vero o falso?
Anche queste sono semplificazioni: non si dice mai di che cifre parliamo e che le commissioni resteranno le stesse per cui un parlamentare dovrà prendere parte a più commissioni. Per entrare nello specifico, il risparmio in termini di impatto sulla spesa pubblica sarà minimo, 1,35€ per ogni cittadino, ma soprattutto tendiamo a non considerare che il costo dei parlamentari non è al primo posto del costo pubblico parlamentare. Se volessimo poi vederla da un altro punto di vista, dovremmo ricordarci che la democrazia non è economica. E non lo è – né può esserlo – perché la democrazia esiste per difendere e attuare politiche per gli ultimi, ovvero quelli che soldi non ne hanno. Per quanto riguarda l’efficienza basterebbe lavorare tassativamente dal lunedì al venerdì e mettere le missioni nei territori durante il fine settimana. (Risata)
Ridurre il numero dei parlamentari non è un tabù – e a suo tempo lo propose anche Stefano Rodotà – ma a tale decisione si sarebbe semmai dovuti arrivare dopo un dibattito sul ruolo del parlamento, sulle sue funzioni, sulla sua autonomia, sul bicameralismo all’italiana. Non credi che il vero nodo che l’antipolitica montante non ha certo sciolto ma anzi aggravato sia non il numero ma la qualità del parlamento, oggi ridotto ad un ruolo quasi ancillare nei confronti dei governi?
Sicuramente l’abuso dell’istituto della fiducia e anche l’eccessivo utilizzo dei decreti legge hanno parzialmente esautorato il parlamento del suo ruolo fondamentale di confronto, dibattito, discussione. È vero che il bicameralismo perfetto fa sì che le leggi generalmente necessitino di moltissimo tempo per essere approvate, dal momento che il sistema della navetta (per norme che vanno oltre la seconda approvazione dei due rami del parlamento) ha come risultato che anche un semplice emendamento deve essere ridiscusso e approvato in entrambe le Camere, ma è altresì vero che nella scorsa legislatura – stando ai dati di Openpolis – delle 252 leggi discusse e approvate da Camera e Senato, solo 50 hanno richiesto la navetta parlamentare. Parliamo insomma di una legge su 5! Abbiamo avuto casi di leggi approvate in pochissime settimane e altre che – penso alla legge che nel 2017 ha introdotto il reato di tortura – hanno avuto un iter lunghissimo e travagliato. Questo per dire che la fortuna di una legge oggi in Italia non dipende tanto dalla sua validità intrinseca, ma da chi la propone. E se la propone l’esecutivo le probabilità di successo sono dieci volte maggiori di quelle di iniziativa parlamentare.
Il parlamento sembrerebbe percepito come inutile dagli stessi parlamentari: basta guardare alle percentuali di assenteismo.
Il dibattito sul taglio dei parlamentari è stato per certi versi banalizzato, non è stato incentrato sul ruolo del parlamento quale organo centrale in una democrazia, ma piuttosto semplicemente sull’eccessivo costo dei parlamentari. La problematica è anche che abbiamo assistito alla drammatica e sempre più marcata distanza tra rappresentati e rappresentanti, che ha spostato il dibattito dal parlamento in altre sedi come ad esempio i social network, tanto che molti rappresentanti – basta vedere il numero di presenze di certi parlamentari – non fanno più il loro lavoro dibattendo le leggi in quella che è la sede deputata, ovvero il parlamento. I livelli di assenteismo dimostrano però un dato importante: il dibattito l’hanno portato in altre sedi, delegittimando il ruolo del Parlamento e inasprendo il sentimento all’antipolitica.
Un nodo non risolto, nonostante fosse una condizione dell’accordo tra Pd e M5S, è quello della legge elettorale. Si parla di un sistema proporzionale con sbarramento del 5 per cento. E se ha un senso in Germania dove il Bundestag conta 700 parlamentari, non ne avrebbe affatto nel nuovo parlamento di 400 deputati. O meglio un senso ce l’ha, l’espulsione di minoranze significative dal parlamento.
Questo nodo rientra nella questione dei pesi e contrappesi. Ovviamente se si riduce il numero dei parlamentari, quindi anche il pluralismo politico, è necessaria una legge che controbilanci questa misura e quindi una soglia di sbarramento elevata, come quella del 5%, sarebbe un’aggravante. Quindi, il taglio dei parlamentari non avrebbe il suo adeguato bilanciamento perché una soglia di sbarramento così alta sarebbe un ulteriore attacco e un’ulteriore riduzione del pluralismo politico e della rappresentanza. D’altra parte la storia politica del nostro Paese ha dimostrato che l’eccessiva frammentazione del parlamento – e tra l’altro è quello che per motivi diversi è accaduto nel marzo 2018 – con un proporzionale puro può spesso portare a un’ingovernabilità tale che poi mina anche la rappresentanza perché costringe partiti magari molto diversi tra loro ad allearsi. E questo finisce per inficiare un vero ricambio politico. Governabilità e rappresentatività non sono termini inconciliabili, ma entrambi fattori necessari affinché la macchina della democrazia non si “impalli”. Va tutelata l’alternanza al governo di forze diverse e la governabilità. Ecco perché, in sostanza, sarebbe giusto rivedere la soglia di sbarramento portandola per esempio al 3%, così da garantire una certa rappresentanza anche ai partiti minori ma comunque rappresentativi di larghi strati di cittadini.
Come si colloca tale riforma nel contesto del crescente astensionismo dell’elettorato italiano e del declino del carattere rappresentativo delle istituzioni? E, ancora, come si lega la crisi del parlamento alla parallela e per alcuni aspetti irreversibile crisi dei partiti?
Sicuramente la disaffezione dei rappresentati dai rappresentanti e la generale delegittimazione della politica sono fattori che incentiveranno il sì. In questo caso si potrebbe verificare il paradosso che la ragione del dilagante astensionismo, ovvero il diffuso astio nei confronti della classe politica, potrebbe portare le persone al voto. Inoltre, va preso atto del fatto che è abbastanza utopico convincere le persone dell’importanza del pluralismo politico e della rappresentanza politica in un momento in cui i più, a torto o a ragione, non si sentono rappresentati. In sostanza, è altamente improbabile che quella fetta di astensionisti che si recheranno al voto, sceglieranno il no. E se è sbagliato che gli elettori votino più con la pancia che dopo una valutazione oggettiva dei costi/benefici della riforma, è altrettanto vero che, soprattutto negli anni più recenti, la classe politica non è riuscita ad essere all’altezza del proprio ruolo: talvolta strumentalizzando le istanze delle cittadine e dei cittadini con compromessi al ribasso, sia non riuscendo proprio a rappresentarle.
Pubblicato mercoledì 29 Luglio 2020
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