Popolo di santi e navigatori. E pure di mercanti di armi. C’è un settore in cui la crisi economica sembra definitivamente alle spalle. È quello bellico. Elicotteri da combattimento, cannoni navali Super Rapid, droni spia, pistole di tutti i calibri, munizioni, bombe, siluri, razzi, aeromobili, sistemi di puntamento, apparecchiature elettroniche, agenti tossici e chimici, missili: non manca nulla nel paniere guerresco.
Nel 2015 il nostro export armato è triplicato andando ad ingrossare gli arsenali di Paesi che in alcuni casi non brillano certo per democrazia e rispetto dei diritti umani.
Dove ci sono merci da vendere poi non possono mancare le banche, che al supermarket degli armamenti svolgono il ruolo di intermediazione finanziaria. Lautamente pagate per i loro servigi, mediamente ciniche per non starsi a porre troppi problemi per la particolarità merceologica dei prodotti, che arrivano sugli “scaffali” di Paesi come l’Arabia Saudita, garantiscono la sicurezza dei pagamenti e, alla bisogna, offrono crediti agevolati alle industrie produttrici di armi.
A rendere trasparente il processo che porta le armi italiane all’estero dovrebbe essere la legge 185 del 1990, che ha disciplinato le esportazioni militari italiane, proibendo la vendita di armi a Paesi in stato di conflitto e introducendo un rigido sistema di autorizzazioni e controlli. “Dovrebbe”, perché quella legge, approvata dopo una mobilitazione straordinaria della società civile e che doveva mettere fine all’export selvaggio (ricordate il bel “Finché c’è guerra c’è speranza” del 1974, diretto e interpretato da Alberto Sordi?) è stata progressivamente svuotata.
La trasparenza nelle comunicazioni al parlamento, che era l’architrave su cui la 185/1990 si regge, è diventata un miraggio. Il documento è poco più che un adempimento burocratico, indifferente al principio sancito dall’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Ignaro delle denunce di associazioni universalmente riconosciute per la loro indipendenza di giudizio. Per dire: le informazioni di violazioni dei diritti umani di un organismo come Amnesty International non vengono minimamente prese in considerazione. Ci si nasconde dietro i deliberati di Onu, Ue e Consiglio d’Europa, istituzioni che non sempre vedono le violazioni dei diritti umani. E si ignorano pure le parole forti pronunciate da più di un anno da Papa Francesco contro i mercanti di morte. A marzo scorso, dopo gli attentati di Bruxelles le sue parole sono state durissime: “Dietro di quel gesto, come dietro Giuda, c’erano altri, dietro Giuda c’erano quelli che hanno dato il denaro perché Gesù fosse consegnato, dietro quel gesto ci sono i fabbricatori, i trafficanti delle armi”.
E veniamo all’ultima “Relazione sulle operazioni autorizzate di controllo materiale di armamento 2015”, consegnata il 18 aprile scorso dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del consiglio dei ministri alle commissioni permanenti di Camera e Senato (Affari costituzionali; Affari esteri, Emigrazione; Difesa; Finanze e tesoro; Industria, commercio, turismo). Lo scorso anno, informa la “Relazione”, “il valore delle licenze di esportazione, comprensivo dei gettiti dovuti ad intermediazioni e a licenze globali di programma, è stato pari a 8.247.078.068 rispetto ai 2.884.007.752 euro del 2014”. Sempre nello stesso anno le sole licenze di esportazione definitiva hanno raggiunto l’importo di 7.882.567.504 euro rispetto ai 2.650.898.056 (+197,4%) del 2014. Le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari, escluse quelle per programmi intergovernativi di cooperazione, sono state di 4,7 miliardi di euro, più che raddoppiate rispetto ai 2,3 miliardi del 2014.
“Ci aspettavamo una crescita – ha detto Francesco Vignarco, portavoce della Rete per il Disarmo – ma certamente non come quella che c’è stata. Qui parliamo di una vera e propria esplosione”.
Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa di Brescia e membro della Rete italiana per il disarmo, ha scritto su Unimondo che “la Relazione che da due anni viene inviata alle Camere è ormai praticamente inutile per conoscere in dettaglio le operazioni autorizzate e svolte per esportazioni di armamenti. Tranne i valori monetari complessivi e i generici materiali militari suddivisi per Paese, la Relazione non dice nemmeno quest’anno quali siano i Paesi destinatari dei materiali militari delle 2.775 autorizzazioni rilasciate e che sono tutte singolarmente riportate nella Tabella A1 del MAECI; ben 366 pagine di operazioni autorizzate di cui non si sa ciò che invece andrebbe saputo: il Paese destinatario. Lo stesso vale per le operazioni effettuate, cioè le consegne di materiali militari: 215 pagine di singole operazioni senza alcun riscontro del Paese destinatario”.
Insomma mentre fino a qualche anno fa, incrociando le numerose tabelle fornite dai vari ministeri, era in qualche modo possibile ricostruire alcune delle operazioni autorizzate e svolte, oggi tutto ciò sarebbe praticamente impossibile. E pensare, come ha sottolineato Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’istituto di ricerche Archivio Disarmo, che per rendere tutto più chiaro “basterebbe una tabella Excel con i nomi delle ditte, il prodotto esportato, la quantità, l’acquirente, il valore, date dei relativi contratti e delle consegne e istituto bancario di appoggio per la transizione finanziaria”.
Per quanto riguarda la ripartizione geopolitica dei flussi di esportazione al primo posto troviamo – almeno così pare a una lettura frettolosa – i Paesi Ue/Nato, in particolare Regno Unito e Germania, passati dal 55,7% del 2014 al 62,6% dell’anno scorso. Poi l’Asia (dal 7,3% al 18,3%). Nordafrica e Medio Oriente pur essendo aumentati in termini assoluti (da 740 milioni di euro a 931,2) vedono ridursi in termini percentuali la quota di mercato totale (dal 28% del 2014 all’11,8%). Nella top ten dei Paesi acquirenti dell’italian style in fatto di armamenti, vecchie conoscenze e new entry: come Singapore che si piazza al sesto posto della classifica con 37 autorizzazioni e un valore di 381 milioni.
Attenzione però alle percentuali riportate sopra. Perché non è detto affatto che siano rispondenti al vero. I grafici riassuntivi forniti dal Ministero degli Esteri e della Cooperazione, sommano i “programmi di cooperazione” con quelli delle autorizzazioni “comuni”, finendo così col gonfiare le percentuali di ripartizione delle autorizzazioni rilasciate a “Paesi alleati” (Nato e Ue) rispetto a quelle delle zone a rischio (Medio Oriente, Asia, Africa). Ma se quei dati vengono scorporati, qualche sorpresa emerge. Intanto il principale Paese destinatario delle autorizzazioni all’esportazione non è più il Regno Unito ma la Norvegia (389 milioni), seguita da Singapore (381 milioni), Stati Uniti (344 milioni) e Emirati Arabi Uniti (304 milioni). Da notare che nel 2015 l’Italia non ha emesso “dinieghi all’export”. Come se non vi fossero armi italiane nei Paesi autoritari, nelle zone calde del mondo!
Una cosa si evince comunque e chiaramente dalla “Relazione” del governo: gli affari e gli interessi intorno alle armi sono fortissimi. A fare la parte del leone è l’ex Finmeccanica, ora battezzata Leonardo, leader nel settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza, controllata per il 30,2% dal ministero del Tesoro. E non poteva che essere così, visto che i settori più rappresentativi dell’attività d’esportazione sono stati l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa, la cantieristica navale ed i sistemi d’arma. In una parola Finmeccanica e le sue controllate. Finmeccanica ha chiuso poche settimane fa un contratto con l’aviazione indonesiana per equipaggiare i suoi velivoli da guerra del sistema radar SEER. Proprio nei giorni in cui il Sipri di Stoccolma, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace, denunciava la crescita delle spese per gli armamenti in giro per il mondo, Finmeccanica annunciava un accordo col Kuwait per la fornitura al Paese del Golfo di 28 caccia multiruolo Eurofighter. Dalla “Relazione” si legge che la società del gruppo Alenia Aermacchi ha visto crescere le autorizzazioni alle esportazioni del 35,91%, Agusta Westland del 22,36%.
Pur edulcorate, le cifre e le tabelle non possono nascondere l’entità degli affari militari in corso: l’Araba Saudita ha fatto acquisti per 257 milioni di euro. L’Arabia è impegnata da circa un anno in un sanguinoso conflitto nello Yemen. Una guerra dimenticata dall’Occidente che ha prodotto finora più di 6mila morti, 170mila profughi e danni devastanti al Paese. La legge 185 del 1990 prescrive che le armi italiane non possano essere vendute a Paesi in conflitto, che violano gravemente i diritti umani. Ma a quanto pare quel divieto è stato scritto per essere violato.
“Il governo, almeno il governo, rispetti la legge” sostiene Eugenio Melandri, direttore di Solidarietà internazionale. Che ricorda come fino ad oggi l’Italia continua a vendere armi a Paesi come Arabia Saudita ed Egitto. L’Arabia Saudita agisce con spregiudicatezza e ambiguità su diversi fronti: da una parte si proclama fedele alleato dell’Occidente e degli Usa, dall’altro alimenta e foraggia l’islam fondamentalista e jihadista.
Si possono vendere armi a Riad? Per Mauro Moretti AD, di Finmeccanica-Leonardo, si può eccome. Ecco cosa diceva solo pochi mesi fa il numero uno dell’azienda: “Noi parliamo con i governi di Paesi che non sono sulla lista nera. Se poi all’interno di quei Paesi ci sono persone che raccolgono denaro per finanziare l’Isis, non è un problema nostro”. Tutto regolare dunque. Quando si tratta di affari non è il caso di mettersi a spaccare il capello. A far lievitare la spesa saudita, raccontava il Fatto quotidiano in un articolo del novembre 2015, sono in buona parte le tonnellate di bombe aeree prodotte nello stabilimento sardo di Domusnovas della RWM Italia Spa.
Le associazioni pacifiste a gennaio hanno presentato una serie di esposti in diverse Procure. Ritengono che, autorizzando la vendita di armi alla Royal Air Force saudita, l’esecutivo abbia violato il punto chiave della legge 185, che vieta espressamente non solo l’esportazione, ma anche il transito e l’intermediazione di materiali di armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato» e verso Stati «la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione». La ministra Pinotti ha negato che l’Italia venda le bombe all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen. Eppure l’utilizzo in territorio yemenita delle bombe fabbricate a Domusnovas in Sardegna dall’azienda tedesca RWM è stato appurato grazie alle fotografie effettuate da Ole Solvang, ricercatore della Ong Human RightsWatch. Dalle foto degli involucri esplosi si legge chiaramente la sigla NCAGEA447, che identifica la provenienza italiana.
Bloccare la vendita di armi all’Arabia Saudita potrebbe aiutare a sconfiggere il terrorismo jihadista e lo Stato islamico. E già, perché può anche accadere che da Riyad le armi finiscano nella mani dell’Isis. In una interrogazione parlamentare a firma dei deputati di Sinistra italiana è spiegato come attraverso la “triangolazione” con Paesi alleati, in alcuni casi finanziatori del Daesh, le armi siano finite nelle mani dei terroristi. “E quindi siamo al paradosso – si legge – che combattiamo contro le armi che noi stessi abbiamo venduto in Medio Oriente”. La mozione cita l’Unodc, l’agenzia Onu che si occupa di droga e criminalità. Secondo le stime dell’organizzazione internazionale almeno il 90 per cento dei traffici illegali di armi proviene proprio dal commercio legale. “Frutto della triangolazione o dell’aver armato gruppi che poi cambiano alleanze, come avvenuto in Iraq e Siria”. D’altronde a mettere nero su bianco che “Daesh ha avuto disponibilità di armi provenienti dall’Arabia Saudita e la stessa accusa grava sul Qatar” è anche la ricerca “Small Arms Survey” dell’Istituto universitario di alti studi internazionali e dello sviluppo.
Il business a prescindere vale per l’Arabia Saudita come per la Turchia, che ha raddoppiato gli acquisti di armi italiane passando dai 52 del 2014 ai 128 milioni dello scorso anno. La porta d’Oriente è il Paese dove i diritti umani vengono violati più di ogni altro in Europa. Ce lo ricordano le misure pesantissime contro la popolazione curda ed il giro di vite contro i media critici del governo.
E poi c’è l’Africa. Anche l’Africa centrale e meridionale che è “generalmente marginale per le nostre esportazioni, sia a causa delle limitate disponibilità economiche dei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, sia in ragione di impostazioni imposte da situazioni di latente conflittualità”, vede crescere l’export tricolore, che passa da poco meno di due milioni di euro a 153.
Un dato da leggere con attenzione è quello relativo all’Egitto. Nonostante il caso Regeni, nel commercio di armi i due Paesi filano d’amore e d’accordo. In cambio delle nostre armi il Cairo ha versato nelle tasche delle aziende italiane 37,6 milioni. Nel 2014 erano poco più di 31.
Un altro caso emblematico di quali percorsi tortuosi possano prendere le armi made in Italy (e non solo) è la vicenda della Libia. Per anni il Belpaese ha venduto a Gheddafi armi di tutti i tipi arrivando a coprire un terzo del “fabbisogno” del Paese nord africano. E non ha mai smesso anche quando altre capitali europee di fronte alla reazione delle proprie opinioni pubbliche per le repressioni della popolazione civile in quell’area del mondo hanno interrotto o ridimensionato le forniture alla Libia e all’Egitto. Che fine hanno fatto le armi dopo la caduta del colonnello e la sua tragica fine è presto detto: gli arsenali – comprese le armi chimiche – sono finiti in mano alle bande armate locali, agli eserciti contrapposti e agli estremisti in diversi teatri di guerra. Non solo in Libia dunque ma anche in Siria e Mali.
Altro Paese in guerra in prima fila negli acquisti è il Pakistan, che per far fronte all’offensiva dei talebani ha letteralmente moltiplicato le importazioni dall’Italia: da 16 a 120 milioni. E poi c’è l’India, cliente di peso nonostante il caso marò. Gli acquisti sono passati da 57 a 85 milioni. Basti pensare che nei giorni in cui la Corte Suprema indiana si accingeva a valutare l’applicazione della legge antiterrorismo quale base d’imputazione per i due marò, il direttore generale del gruppo Beretta, Carlo Ferlito, annunciava dal salone militare di New Delhi la partecipazione dell’azienda alla gara per la fornitura di fucili d’assalto all’esercito indiano.
Eppure il ritorno di Girone qualche contraccolpo negli affari lo ha avuto. Almeno a leggere il Fatto quotidiano del 28 maggio, da cui si apprende che nelle stesse ore in cui la Corte Suprema indiana accettava di rendere immediatamente esecutivo l’ordine del Tribunale arbitrale internazionale dell’Aja di far rientrare in Italia il fuciliere di Marina Salvatore Girone, il Ministero della Difesa indiano annullava un mega-contratto da 300 milioni di dollari con Finmeccanica per la fornitura di siluri per i sottomarini di Nuova Delhi. La decisione, ufficialmente legata allo scandalo delle tangenti per l’appalto da 560 milioni per gli elicotteri Augusta all’India “alimenta il sospetto che sia stata presa come ritorsione verso l’Italia: la cancellazione dell’affare come prezzo da pagare per la restituzione definitiva dei marò”.
Sfogliando ancora la relazione governativa si scopre una new-entry assoluta: l’Iraq, finora mai comparso tra i clienti italiani, esordisce nel 2015 con vendite per 14 milioni. In massima parte armi leggere e munizioni.
Se sulle armi l’Italia è poco trasparente, l’Europa non è da meno.
Nel maggio scorso è stata pubblicata la 17ª Relazione dell’UE sulle esportazioni di armamenti relativa all’anno 2014. La pubblicazione, nonostante le sollecitazioni del parlamento europeo, è arrivata tardivamente a conoscenza della pubblica opinione, denunciano la Rete italiana per il disarmo e l’European Network Against Arms Trade (ENAAT) che hanno espresso una dura critica nei confronti del Consiglio dell’Unione Europea: «Non prende sul serio il controllo democratico sulle esportazioni di armi e di sistemi militari». La relazione, «è incompleta e presenta dati incoerenti» e ciò è conseguenza anche del «crescente impatto negativo sul controllo delle esportazioni di armi a seguito della liberalizzazione dei trasferimenti intra-UE».
I dati della relazione mostrano che la principale zona geopolitica di destinazione dei sistemi militari è stata il Medio Oriente (oltre 31,5 miliardi di euro di licenze): ciò significa che i Paesi dell’UE stanno vendendo rilevanti quantità di armi nella zona del mondo col maggior numero di conflitti e regimi autoritari. «Invece di migliorare – ha detto Giorgio Beretta – la relazione sta peggiorando di anno in anno e questo nonostante i ripetuti appelli delle associazioni della società civile e le esplicite richieste del Parlamento europeo. Una tale mancanza di trasparenza non dovrebbe più essere tollerata».
Ultimo capitolo interessante della vicenda armi si chiama “banche armate”.
Oltre 4 miliardi di euro (un incremento del 57,2% rispetto al 2014) il valore delle transazioni accreditate sui conti correnti delle banche con sede in Italia. In testa alla poco lusinghiera classifica troviamo le banche straniere (Deutsche Bank – che non ha mai emanato delle direttive per il controllo delle operazioni finanziarie sugli armamenti convenzionali e sulle armi leggere – e Crédit Agricole sopra tutte, la prima con 1.004.042.503,91 di euro di importi segnalati, la seconda con quasi 591 milioni di euro). Ovviamente ci sono anche i gruppi italiani. Al terzo e quarto posto, infatti, troviamo Unicredit con poco più di 474 milioni (passata dal 9 al 12% delle operazioni) e Intesa-San Paolo con 301,3 milioni (dal 2 al 7,4%). Ma l’elenco è lungo e vi si trovano un bel drappello di banche popolari, da quella di Milano a quella dell’Emilia Romagna. Con 17 milioni circa di importi segnalati pure Etruria si è cimentata col business delle armi prima di lasciare i suoi clienti con in mano un pugno di mosche.
Da notare che rispetto a un tempo, quando era obbligatorio per le banche chiedere al Ministero Economia e Finanze l’autorizzazione per ogni transazione, dal 2013 è sufficiente una semplice comunicazione via web delle operazioni effettuate.
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e al La Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica
Pubblicato mercoledì 1 Giugno 2016
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