Paolo Cognetti (http://cdn.illibraio.it/wp-content/uploads/2016/11/paolo-cognetti.jpg)

Paolo Cognetti è nato a Milano 39 anni fa. Si è diplomato alla Civica scuola di Cinema Luchino Visconti (ha anche il pallino della matematica, però) e nel suo repertorio di autore ci sono anche documentari a carattere sociale e politico oltre che sugli scrittori e la letteratura americana (sua grande passione insieme all’amore per la montagna). Cognetti vive metà dell’anno nel capoluogo lombardo e l’altra in Valle d’Aosta. È un gran camminatore, sempre con il cane Lucky al fianco. Con il romanzo “Le otto montagne”, edizioni Einaudi, ha stravinto il Premio Strega 2017. Il libro è saldamente al primo posto nella classifica dei più venduti, e verrà tradotto in 31 lingue (prima, ci sono stati “Manuale per ragazze di successo”, 2004, e “Sofia si veste sempre di nero”, 2012, entrambi editi da minimum fax).

Come valuta Cognetti la preoccupazione dell’Anpi sul sempre maggiore intensificarsi dei neofascismi, dei razzismi, e della xenofobia, nel nostro Paese e in Europa?

Sono un iscritto all’ANPI e con l’Associazione condivido pienamente la necessità di tutelare i valori democratici della Costituzione. Faccio parte della generazione cresciuta durante il ventennio berlusconiano – avevo 16 anni nel 1994 e 35 quando quell’epoca si è conclusa –. Ho vissuto il cambiamento cominciato provocato da quella stagione di grande revisionismo, mi accorgevo che molti personaggi pubblici esternavano idee in precedenza giudicate inaccettabili, incivili. Invece diveniva “normale”. Un arretramento che mi spaventava: valori, riferimenti e certezze sembravano dissolversi, erosi, spazzati via. Oggi si può essere, di nuovo, fascisti. E ho paura. 

Esiste un pericolo concreto, dunque?

Penso di sì. La mia esperienza di uomo e di scrittore è divisa tra due mondi: Milano e la mia montagna in Valle d’Aosta. Mi preoccupano entrambi, da questo punto di vista. Milano è una città importante per capire dove sta andando l’intero Paese; spesso le novità, nel bene e nel male, arrivano da lì. L’altro mio mondo, la montagna, è invece un luogo che ti fa andare indietro nel tempo, sia dal punto di vista culturale sia sociale. E mi allarma di più, confesso, perché somiglia molto alla provincia italiana più profonda mentre forse Milano possiede gli anticorpi per reagire. A Milano abito alla Bovisa, in periferia, dove risiedono moltissimi cinesi ed egiziani, è un quartiere d’incontro con gli stranieri, c’è abitudine, consuetudine alla convivenza. Per fortuna, aggiungo, è un aspetto che mi piace molto. Per i miei nipoti è questa la normalità. Milano non rappresenta l’intera Lombardia, naturalmente. Penso alla provincia di Varese o di Brescia, molto diverse dalla mia città. La sezione Anpi Bovisa, dove sono iscritto, è molto attiva, promuove tantissime e partecipate iniziative e ci teniamo a festeggiare bene la Liberazione, ogni 25 aprile. Bovisa, Niguarda e tutta la periferia nord milanese hanno una tradizione antifascista difficile da buttare giù.

In montagna invece?

Dico con rammarico che nella mia montagna razzismo, omofobia, maschilismo, e tanti fascismi possibili, sono fenomeni reali. Non è stato facile fammi accettare in montagna, ho la carnagione molto chiara e non so cosa sarebbe andare se fossi stato un nero. In Valle d’Aosta la coscienza politica è minore, ci si è dimenticati per esempio, dell’esperienza resistenziale, della Repubblica partigiana. Anche l’Union Valdôtaine, il movimento politico regionalista, viene da lì, eppure dopo 70 anni…

Ritiene che il mondo della cultura sia sensibile a questi temi? Sembrerebbe non dia voce ai temi d’impegno civile e democratico, non se ne occupa…

Non sono d’accordo. L’attenzione ai temi civili è tornata urgente tra gli scrittori. In passato, negli anni Novanta soprattutto, nel periodo della post-modernità dilagante, gli scrittori si chiudevano nei loro giochini letterari. Non è più così. Faccio parte di una generazione di scrittori piuttosto vivace, quarantenni-quarantacinquenni, ce ne sono tanti di valore, penso a Giorgio Fontana, Nicola La Gioia, Valeria Parrella, scrittori di Roma, Napoli, Milano. Sono cresciuto con loro, abbiamo esordito insieme. Non siamo giovanissimi, scriviamo da vent’anni. Il Salone del libro di Torino con la nuova direzione di La Gioia o quello di Milano, dimostrano che le energie ci sono e si occupano di quanto avviene nella società attuale. Le voci esistono, eccome, ma sono trascurate, non vengono ascoltate abbastanza. Forse sarebbe necessario un maggiore ricambio, anche nell’attenzione da parte dei media. L’impegno sociale, civile e politico sono tornati a essere un imperativo della letteratura e dell’arte contemporanea. Desidero sottolineare la centralità della città, hanno riconquistato la ribalta, l’Italia non è più solo provincia profonda, una pancia che fa orrore e rifuggo. Nelle metropoli si è ripreso a sperimentare, accadono cose nuove e anche belle.

Eppure le periferie sembrano insorgere quando devono accogliere immigrati o rifugiati. La cronaca, per esempio quella romana, lo documenta…

Le periferie metropolitane soffrono, certo, ma sono una sorta di laboratorio. Se un episodio di intolleranza accade a Roma, se ne parla, si discute sui giornali e in tv per capire cosa diavolo sta succedendo; di quanto accade per esempio in remote località del Veneto, dove si verificano fatti gravissimi, non lo sa nessuno.

La propaganda neofascista fa leva sulla paura dell’immigrato. Siamo tutti a rischio xenofobia, razzismo, magari senza esserne consapevoli?

La condizione in cui si vive ha un suo peso. Quando vediamo situazioni di degrado siamo spaventati, parlo per me naturalmente, ma dobbiamo combattere contro i nostri istinti, è un nostro dovere. Non dobbiamo cedere alla paura del diverso. Va cercato l’incontro e il dialogo, staremmo tutti molto meglio.

In montagna è nata la Resistenza italiana; per l’autore de “Le otto montagne” è importante il rapporto con la memoria partigiana?

Altroché. La montagna è stata rifugio dei ribelli, isola di libertà, seppur provvisoria, naturale sia stata la culla della Resistenza partigiana. Ci sono due o tre luoghi molto importanti in Valle d’Aosta per me e la mia formazione. Abito vicino al Col de Joux, dove venne arrestato Primo Levi dopo tre mesi di esperienza resistente, improvvisata come poteva essere nel ‘43. Il villaggio di Grana, dove è ambientato il romanzo, fu rifugio di una banda partigiana importante per la Val d’Ayas, era una formazione di Casale Monferrato, che operò fino al ‘44; il mio terzo luogo del cuore, in cui spesso vado a piedi perché è a un giorno di cammino da casa mia, si trova in Val Sesia: divenne tristemente noto per una battaglia contro i nazifascisti e la morte di molte persone. Camminare sulle mie montagne, per me significa percorrere i sentieri della memoria. Ci tengo molto.

“Le otto montagne” racconta di amicizia, di padri e figli e di luoghi che sembrano personaggi. Come tramanda la memoria partigiana?

Nelle otto montagne c’è una memoria trasmessa senza parole: il protagonista del romanzo, Pietro, impara ad andare in montagna seguendo il padre in silenzio. Il padre non spiega mai nulla a parole, ma riesce a trasmettere l’idea di libertà e autonomia portando in montagna suo figlio. Il padre di Pietro è un orfano di guerra, è nato nei primi anni Quaranta e ha vissuto il dopoguerra. Il suo è un insegnamento silenzioso, ed è quanto è successo a me. Tra i miei maestri c’è Mario Rigoni Stern, che da militare con gli alpini rifiutò il fascismo durante la ritirata dalla Russia e fece la sua Resistenza in un campo di prigionia. Il sergente nella neve racconta di una presa di consapevolezza attraverso l’esperienza della guerra, di una scelta di valori mai più abbandonati. Ettore Castiglioni, grande alpinista e partigiano a modo suo, diceva che un alpinista non può essere fascista perché l’anelito dell’alpinista è la libertà, il decidere per se stessi, il senso di responsabilità. È la lezione della montagna. La montagna è una grande scuola di antifascismo.

Col de Joux (https://alpinecols.com/wp-content/uploads/2015/10/http___www.morzine.avoriaz.com_ images_info_pages_coldejouxplane.val_.poret_.606.525-1170×500.jpg)

Progetti futuri?

Ho in mente alcune idee, non di scrittura, da realizzare nella montagna dove abito. Quest’anno ho organizzato per la prima volta un festival nel bosco della montagna dove abito sul tema del ritorno e del desiderio di montagna come espressione di libertà e integrazione; vi hanno partecipato oltre tremila persone in tre giorni. Un’esperienza bellissima che vorrei ripetere. Sto inoltre costruendo un rifugio per fare cultura, condividendolo con altre persone e scrittori, operando anche con le scuole. Forse in montagna si può organizzare la propria rivoluzione.