Nando dalla Chiesa (da http://www.comunicareilsociale.com/wp-content/uploads/2016/03/pic_nando_dalla_chiesa_30.jpg)
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Ma come si parla di mafia sulla stampa e sulle tivù italiane? E soprattutto: che inchieste fa la nostra informazione? L’interrogativo è stato rilanciato dopo la doppia famigerata trasmissione di Bruno Vespa, costruita intorno alla presentazione del libro di Salvo Riina, figlio di Totò Riina, già capo sanguinario della Cosa nostra dominata dai corleonesi. Diciamo dunque subito che stampa e tivù soffrono di un alto tasso di dilettantismo. Spesso si incrociano nei cosiddetti talk-show personaggi che con aria perentoria improvvisano idee in libertà, o giornalisti e magistrati che per sola virtù della loro qualifica professionale vengono ritenuti (e si ritengono) in grado di discutere questioni e passaggi storici complessi e che richiederebbero un minimo di preparazione specialistica. Basta vedere, d’altronde, il compiacimento con cui gli ospiti di passaggio si trovano regolarmente uniti a sostenere che “aveva ragione Sciascia sui professionisti dell’antimafia”. Tutti felicemente ignorando che in quel suo famoso articolo del gennaio 1987 lo scrittore siciliano additava nominativamente un solo bersaglio: Paolo Borsellino. Già, era lui il profittatore…

vespaIl dilettantismo si riverbera anche nelle inchieste giornalistiche. Che sono raramente apportatrici di elementi nuovi, in termini di informazioni o di analisi storica. E appaiono più spesso ripetitive, perfino nelle immagini usate. Le inchieste migliori, in genere, non superano il format delle testimonianze assortite con intelligenza e rispetto degli avvenimenti storici, documenti comunque di spicco per un pubblico sempre più stretto tra retorica, omissioni, autocensure e litigiosità faziosa. Le si può trovare, in tivù, in tarda e tardissima serata, soprattutto su canali secondari. Poi ci sono i filoni-rarità, in cui eccellono alcune inchieste di Riccardo Iacona su “Presa diretta”. Indimenticabili le puntate su Lonate Pozzolo, provincia di Varese, o sull’hinterland torinese, in tutti e due i casi grazie a veri e propri saggi di letteratura televisiva, efficacissimi nella denuncia della colonizzazione di intere aree del Nord Italia a opera dei clan calabresi.

Su un piano più generale, e al di là del pressapochismo un po’ lazzaronesco di certe trasmissioni tivù, vi sono poi però tre altri limiti quasi fisiologici della nostra stampa.

Riccardo Iacona
Riccardo Iacona

Il primo è quello di “riposare” sulle inchieste giudiziarie, di sapere e volere “affondare” poco nella realtà quotidiana in autonomia dai magistrati. In effetti la realtà di ogni giorno, nella vita delle amministrazioni locali, nelle frequentazioni sociali, negli abusi edilizi, nel malaffare di cui si ha pubblico sentore, offre suggerimenti di inchiesta in tutte le direzioni. E se è vero che per limiti anche materiali non tutti possono essere seguiti, è però altrettanto vero che si preferisce volentieri acquattarsi dietro le mosse e le inchieste dei pubblici ministeri o delle forze dell’ordine, e mobilitarsi uniformemente intorno alle operazioni di polizia giudiziaria e alle relative intercettazioni telefoniche e ambientali. La ragione è duplice. La prima è che obiettivamente queste operazioni sono spesso in grado di produrre un materiale copiosissimo, in grado da solo di “coprire” l’informazione per più e più giorni. La seconda è che questo modello di inchiesta (chiamiamolo di seconda mano) mette tendenzialmente al riparo dalle rappresaglie giudiziarie (querele e cause civili) degli interessati, che anche a causa delle colpevoli lentezze legislative si vanno facendo sempre più incisive e temibili.

Il secondo limite è di muoversi comunque all’interno della dimensione cronachistica. L’inchiesta che sovverte i luoghi comuni è fatta invece a volte di una ricostruzione storica degli eventi, grandi e piccoli. Richiede dunque un impegno più o meno grande in relazione alla conoscenza effettivamente accumulata della materia da parte del giornalista e alla sua capacità di porsi specifiche domande. Un esempio in proposito può essere quello della violenza contro le cose, ovviamente meno visibile della violenza contro le persone, ma assolutamente efficace nel piegare una comunità (fosse anche solo di operatori commerciali) alla prepotenza mafiosa. Domanda: che immagine si avrebbe della “tranquillità” e della “inoffensività” mafiosa in un territorio del Nord se si ricostruisse numero e qualità degli incendi effettuati in un certo periodo di tempo in questa o quelle città? Se si partisse dalla consapevolezza storica che l’incendio è la prima forma di linguaggio con cui la mafia manifesta la sua presenza e i suoi progetti di conquista?

lea-garofaloMa vi è poi ancora un terzo limite, che è il grado di sensibilità in base al quale avviene l’individuazione/selezione delle notizie. Forse in questo caso l’esempio più efficace è quello della assoluta indifferenza con cui venne seguito per un paio d’anni il processo per l’assassinio di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese, testimone di giustizia, uccisa dal compagno e dai suoi complici. La sua storia, e quella della giovane figlia Denise che ebbe il coraggio di denunciare il padre, è poi diventata importante, preziosa anche per la memoria pubblica, tanto da avere generato un film. Ma questo è avvenuto grazie alla straordinaria mobilitazione delle liceali milanesi e di due riviste di battaglia (Narcomafie, Stampo Antimafioso), che consentirono di vincere il disinteresse della grande stampa.

Che conclusioni trarne? Un’informazione sulla mafia ridotta al lumicino? Sarebbe ingiusto dirlo. Ma certo si tratta di un’informazione ancorata a un gruppo assolutamente minoritario di giornalisti e di testate per raccontare e denunciare un fenomeno che è invece centrale per la qualità della vita civile del Paese. L’idea di democrazia giunta sui camion imbandierati e festeggiata nelle nostre città in quel lontano 25 aprile chiede molto di più.

Nando dalla Chiesa, scrittore, sociologo e politico, già parlamentare