Irene capelli cortiIl sociologo francese Pierre Bourdieu sostiene che il dominio maschile sulle donne è la più antica e duratura forma di oppressione esistente.

Inutile appellarsi alla scienza, sfogliare affannosamente manuali di “Storia dell’umanità” alla ricerca del fondamento biologico di una discriminazione antica quasi quanto l’homo sapiens: non esiste.

Yuval Noah Harari, nel suo Da animali a dèi, ci prova comunque e passa in rassegna quelli che potrebbero essere stati primati “naturali” dell’uomo sulla donna (come potenza muscolare, aggressività, competitività), ma niente: non esiste un principio discriminante biologico plausibile.

Anzi, Harari ci dimostra semmai che la biologia consente, mentre la cultura proibisce, rafforzando poi i propri divieti sostenendo che essa proibisce solo ciò che è innaturale.

E così, almeno a partire dalla Rivoluzione agricola (12mila anni fa), la maggior parte delle società umane sono state (o sono ancora?) società patriarcali, in cui le donne sono considerate inferiori agli uomini.

Se si procede nei millenni e si arriva alle società greca e romana è possibile svelare – come sostiene Eva Cantarella nel suo L’ambiguo malanno – «se non il momento nel quale nacque la divisione dei ruoli sessuali, il momento nel quale questa divisione venne codificata e teorizzata: e cominciò quindi ad essere vista, invece che come un fatto culturale, come la conseguenza di una differenza biologica, automaticamente tradotta in inferiorità delle donne». Inutile precisare che per donne si intendono solo le libere, le schiave (e gli schiavi) essendo oggetto e non soggetto di diritto.

Sono i miti a raccontarci col loro linguaggio immaginifico lo sviluppo e la definitiva affermazione di tale gerarchia tra i sessi. Lo storico delle religioni Walter Otto sostiene che nella religione preomerica dominava l’elemento femminile, su tutti Gaia (la Terra); fino a quando – e ce lo narra Esiodo nella Teogonia (VIII-VII sec. a.C.) – non prese il potere il giovane Zeus, padre e re dell’intera generazione degli dèi olimpici, e con essi si affermò una visione del mondo nuova, tutta maschile. Maschile e potente al punto che Atena stessa, la meno femminilmente connotata fra le divinità, nacque dalla sola testa del padre Zeus.

Come andassero le cose per le donne nei secoli del cosiddetto Medioevo ellenico, dal crollo della civiltà micenea all’VIII sec. a.C. circa, lo hanno cantato aedi e rapsodi e lo ha scritto Omero (o chi per lui). La donna deve essere innanzitutto bella, deve eccellere nei lavori domestici, essere pudica e fedele, soprattutto deve obbedire: ai padri prima, ai mariti poi e, lontani questi ultimi, ai figli maschi. Penelope a Telemaco, Andromaca ad Ettore. Della donna Omero, per bocca di Agamennone, insegna anche a diffidare: «è un essere infido la donna», e non solo se maga, ninfa o divinità minore (Circe, Calipso, le Sirene), ma anche se moglie.

È il tragico Eschilo (525-456 a.C.), nella sua Oresteia, a esporre i fatti. Clitennestra, moglie di Agamennone, è l’adultera per antonomasia. Fatto di Egisto il suo amante, ella attende il ritorno del marito solo per poterlo assassinare, vendicandosi così dell’oltraggio di avere portato con sé, come concubina, la troiana Cassandra e di avere avuto, in guerra, Criseide, ma soprattutto di aver sacrificato agli dèi la figlia Ifigenia per ottenere una felice navigazione. Può sembrare, così, che Clitennestra si ribelli alla morale tradizionale, per cui il concubinato dell’uomo era lecito, ma ci si sbaglia: suo figlio Oreste la assassinerà vendicando così il padre e quando verrà portato ad Atene per essere giudicato in un tribunale di cittadini presieduto da Atena (uno dei primi della storia), sarà difeso da Apollo e la sentenza, col voto determinante della dea, lo manderà assolto, perché «non è la madre generatrice di quello che è chiamato suo figlio:/ella è la nutrice del germe in lei seminato. Il genitore è colui/che la feconda».

La trilogia di Eschilo afferma così esplicitamente la subalternità del ruolo femminile persino nella procreazione. Nessuna novità, tutto sommato, dato che Esiodo aveva già insegnato che la donna Pandora, «ambiguo malanno» dato dagli dèi per castigo all’uomo, era impastata di terra e acqua. Aristotele (IV sec. a.C.) sancirà tutto questo nel De generazione animalium: la donna è materia passiva, l’uomo è spirito, principio attivo e creativo.

La legislazione di Dranconte (VII sec. a.C.) prevedeva fino alla pena di morte per il solo adultero (sempre e solo uomo), in quanto la donna era semplice “adulterata”, incapace di disporre di sé nel bene e nel male e dunque non punibile con la morte.

La situazione della donna migliora relativamente in epoca ellenistica, ma si tratta pur sempre di una minoranza di donne, quelle delle classi sociali più elevate, e spesso se le leggi ci parlano di maggiori diritti civili e libertà femminili, ad esse non corrisponde un effettivo cambiamento nella mentalità collettiva: quello che sancisce la legge è ancora fortemente riprovato e condannato dalla società (e nel 1961 in Italia sarà grottescamente la Corte Costituzionale ad adattarsi al pensiero comune: “l’ordinamento giuridico positivo non può del tutto prescindere […] dalle valutazioni che si affermano […] nella vita sociale. Ora, che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo è apparso al legislatore, in base […] alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito”.

Basterà qui ricordare solo brevemente che anche la società romana considerò la donna libera quasi esclusivamente nel suo ruolo di moglie e madre e che la relativa emancipazione da essa ottenuta verso la fine dell’età repubblicana fu spazzata via dal rigore nei costumi ripristinato , col mos maiorum, dall’impero. Inutile dire anche che della rivoluzionaria dottrina cristiana, che ammetteva tra i suoi fedeli gli emarginati di sempre, ossia schiavi e donne, si svilupparono e rafforzarono, una volta divenuta religione di Stato, soprattutto gli elementi atti a mantenere l’ordine costituito, fra cui la discriminazione sessuale: donna strumento del demonio; matrimonio ripiego buono a soddisfare legittimamente le tentazioni della carne e per giunta indissolubile, a differenza che nella Roma repubblicana, per cui molte infedeli vennero messe a morte, anche sul rogo. La prima pena detentiva della storia romana venne introdotta dall’imperatore Giustiniano che, poco incline alla pena di morte, intendeva così sanzionare con la massima punizione l’adulterio femminile: la traditrice doveva finire i suoi giorni in convento.

È in questo abisso temporale della storia umana che occorre piantare gli occhi prima di liquidare come mera sottigliezza linguistica l’uso di un termine come femmicidio o femminicidio.

Il termine femmicidio è usato per la prima volta dalla criminologa Diana H. Russell nel 1992 per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne.  Secondo lei «il concetto di femmicidio include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito [estremo] di atteggiamenti o pratiche sociali misogine» radicati nelle nostre società.

Usato diffusamente ed erroneamente come sinonimo di femmicidio, il termine femminicidio ha invece un significato più complesso, che concerne anche gli aspetti sociologici della violenza e le implicazioni politico-sociali del fenomeno. Introdotto nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, il termine femminicidio esprime «la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa».

Il femmicidio non è mai un fatto isolato, un gesto folle e improvviso, ma è l’ultimo atto di un ciclo di violenze; esso individua una responsabilità sociale e statale nel persistere, ancora oggi, di un modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna è subordinata, soggetto discriminabile, violabile, uccidibile.

Per questo il termine omicidio non basta, in quanto le motivazioni che spingono al femminicidio violano anche i diritti di non discriminazione per sesso garantiti dall’articolo 3 della nostra Costituzione.

Occorrono pertanto non solo leggi chiare e pene certe, ma anche – come ricorda la giovane avvocato Barbara Spinelli nel suo blog – l’impegno a formare ed educare istituzioni e società che garantiscano alle donne una vita libera da ogni forma di violenza: promuovere una cultura che non le discrimini; adottare ogni misura idonea a prevenire la violenza maschile su di esse; proteggere quelle che vogliono fuggire dalla violenza maschile, perseguire i crimini commessi nei confronti delle donne.

È ora che si restituisca alle bambine, alle ragazze e alle donne la libertà di essere se stesse, di essere pienamente soggetti di diritto, uniche padrone di sé e non proprietà degli uomini che le uccidono nelle loro case, le bruciano lungo i cigli delle strade o in gabbie come animali, in ogni tempo e a ogni latitudine.