25 Aprile, con la “A” maiuscola? O 25 aprile, con la minuscola? Perché, lo diciamo subito, il titolo non fa riferimento al ’45, al giorno della Liberazione, quando morire sarebbe stato “uno scherzo infame, gli altri che ballavano in piazza e tu che marcivi dentro un fosso”. Ma al 2001 – e dunque ci va la maiuscola lo stesso, perché è Festa Nazionale e una data della storia, come via XX Settembre – quando quel giorno muore il partigiano “Julien”.

Il romanzo di Bertoni parte da lì, dal funerale “a passo di marcia, sulle note della banda”, cantando Bella ciao. Poi attraverso volute ampie nello spazio – pianura e colline a ridosso delle montagne dell’Appennino emiliano – e nel tempo, soprattutto, la narrazione procede avanti e indietro di sessant’anni, ai venti mesi della Resistenza. Non chiudendo però tra parentesi quel che c’è stato in mezzo. Come nella tradizione del romanzo americano recente, nulla accade per caso, vicende e fatti hanno radice in quelli che li hanno preceduti. Come le generazioni, si danno la mano gli uni agli altri, senza soluzione di continuità. E sono il prodotto delle scelte, delle azioni, dei pensieri degli uomini. Entrano in scena, perciò, insieme ai rastrellamenti e agli interrogatori condotti dai tedeschi e dai repubblichini, le torture di Bolzaneto al G8 di Genova, insieme alle stragi nazifasciste, quelle dell’Italia del dopoguerra, Bologna, il Cermis. Inutile nasconderlo, un altro filo di ragionamento che ha percorso la lunga notte della Repubblica, lo stragismo, il terrorismo e gli altri misteri d’Italia è: “Dovevamo ucciderli tutti?”. L’autore non fugge alla domanda, ma la mitica ricerca delle armi sepolte dal capo partigiano per non consegnarle agli alleati, è, appunto, un mito storico. E in un libro che parla anche dell’Italia di oggi, è solo il macguffin che porta avanti storia e personaggi – e tu, lettore – a cercare, trovare e dare la risposta.

L’autore Federico Bertoni (da http://www.osservatorio-oci.org/images/oci/relatori/ Federico_Bertoni.jpg)

I personaggi, appunto. Il protagonista è ispirato, ma solo ispirato, al partigiano Vincenzo Sutti “Farfallino”, comandante del distaccamento “Barabaschi”, inquadrato nella 31ª brigata Garibaldi “Forni”. Dal suo nome di battaglia proviene, ad esempio, la leggenda che quando Julien appariva nei boschi o sul campo di battaglia era circondato da uno svolazzare di farfalle blu, anche d’inverno in mezzo alla neve: “il comandante carismatico, inflessibile, tendenzialmente anarchico, un eroe da leggenda per il popolo e un dio in terra per i suoi compagni (…) li guidava con le sue teatrali pose da guerrigliero, i capelli lunghi, il mantello stracciato e il mitra sempre a tracolla”. L’ultimo partigiano che rimarrà “in piedi, sferzato dal vento, sulla gobba di una collina”, come un pellerossa nel western delle origini. Anche le figure che lo affiancano rientrano a pieno titolo nella categoria “Eroi”, quelli che saranno decorati con la Medaglia d’Oro. “Tito”, vicecommissario di brigata, stabilisce contatti con i comandanti di altri distaccamenti e assimila i principi di quella “complicata ingegneria militare” che avrebbe prodotto battaglioni, divisioni, gradi, tribunali, servizi di intendenza e spionaggio “nel sogno di creare un grande esercito partigiano”. Poi è destinato a Milano presso il comando generale del Corpo Volontari della Libertà, il “vero centro della lotta, il cervello militare della Resistenza”. “Bill” era un soldato e un poeta, con un “talento irresistibile nel trascinare tutti alla lotta e convincerli che quella era la cosa giusta (…) usava la stessa energica grazia per impugnare il mitra o il clarinetto”. Era il migliore, “i morti sono sempre i migliori”. Poi c’è Anna, attiva nei Gruppi di Difesa della Donna, che “per nulla al mondo avrebbe imbracciato un fucile”, ma nell’inverno del ’44 dichiara la sua guerra alla guerra e combatte fino alla Liberazione, al fianco di Julien.

In quegli ultimi mesi di azioni e sabotaggi, assalti alle caserme e ponti che saltavano, la storia sembrava “un luogo fisico da calpestare” e altrettanto concrete emergevano le risposte a quella domanda rimasta in sospeso. Cioè che un mondo migliore non può nascere dalla logica stessa della guerra, l’eliminazione. Che “la guerra fa schifo, punto e basta”. E che la guerra è sempre un crimine di guerra.

Daniele De Paolis, giornalista