Domani, 20 aprile, nell’ambito delle celebrazioni del 25 aprile, la sezione Anpi “Napoli centro” sarà intitolata ad Antonio Amoretti, partigiano giovanissimo delle Quattro Giornate, scomparso lo scorso 23 dicembre all’eta di 95 anni. Ne aveva appena compiuti 16, era studente e viveva in un quartiere popolare, quando il 27 settembre 1943 decise insieme a tanti altri coetanei di combattere le truppe nazifasciste che occupavano la città.

Amoretti, che a lungo ha guidato l’Anpi provinciale partenopea, è presenza imprescindibile e imperdibile del Memoriale della Resistenza Italiana, noi partigiani.it, e le parole che riservò alla videointervista, indossando al collo il fazzoletto tricolore dell’associazione e appuntata sulla giacca la spilletta, sono più attuali che mai nel collocare i fatti della Storia al giusto posto: “Hanno fatto più morti i cecchini fascisti dei tedeschi”, che già prima dell’occupazione saccheggiavano e depredavano a mani basse, il riconoscimento del ruolo primario delle donne nell’insorgere della prima grande città europea, “Senza di loro non ci sarebbero state le Quattro Giornate”, il revisionismo e le lungimiranti preoccupazioni per il presente. Di seguito vi proponiamo anche una bella intervista realizzata da Francesca Saturnino che per Patria ha voluto rammentare quell’ultima volta, in cui volle sottolineare che “le Quattro Giornate non sono state un evento spontaneo ma organizzato”.

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Tra tutti gli incontri fatti nella mia vita di giornalista, quello con Antonio Amoretti è stato uno dei più memorabili. Andammo a trovarlo nella sua casa in piazza Medaglie d’Oro. Era quasi estate. Aveva già una bella età eppure non si sottrasse un solo minuto alle mie domande. L’intervista durò quasi due ore, Amoretti raccontò quei giorni di furore e coraggio che incendiarono Napoli come se fossero trascorse solo poche ore. Ricordava tutto, nei minimi particolari. E con i ricordi portava con sé la voglia di fare ancora, di condividere, di formare coscienze, soprattutto nei giovani, affinché certe brutture non si ripetessero e non fossero viste mai più. Quando uscì l’articolo lo avvisai. Lui comprò la rivista: deve essergli piaciuto così tanto che dalla redazione mi chiamarono per dirmi che il partigiano Antonio Amoretti si era appena abbonato al giornale. Negli anni successivi ci siamo sempre sentiti. Lo chiamavo per chiedergli informazioni per altri articoli o mie ricerche e poi ogni settembre, nei giorni della nostra amata ricorrenza. Mi ripromettevo di andare di nuovo a trovarlo e continuare a registrare i suoi racconti, la pandemia ci ha tenuti distanti. L’ultima volta che l’ho chiamato è stato all’indomani delle elezioni 2022. Era l’unica persona che mi andava di sentire in quel giorno così triste per la nostra democrazia e la nostra Repubblica nata dall’antifascismo. “Sono arrabbiato e preoccupato – mi disse – perché i giovani non ci sono, mentre i fascisti sono tornati. Ma vedrai: supereremo anche questa”. Lo voglio ricordare così: come un combattente, un cittadino encomiabile, un resistente. Fino all’ultimo minuto. Arrivederci, Antonio Amoretti. E grazie.

Antonio Amoretti, una vita per l’antifascismo

Antonio Amoretti racconta a Francesca Saturnino

Antonio Amoretti ha gli occhi grandi e una voce rauca, chiara. Quando parla dà voce ai ricordi di una memoria nitida che alla bellezza di quasi novantadue anni spiazza per la sua precisione. Antonio Amoretti è un pezzo di Storia d’Italia e della nostra città: a sedici anni prese parte alle Quattro Giornate di Napoli che è stata la prima città italiana a insorgere contro i nazifascisti. Commendatore al merito della Repubblica, Medaglia d’Oro del Comune di Napoli per le Quattro Giornate, responsabile dell’Anpi Napoli, tra i primi in città a praticare lo jujitsu, antica arte marziale giapponese.

Nanni Loy e Vasco Pratolini sono andati a trovarlo più volte per scrivere la sceneggiatura del famoso film sulla Resistenza napoletana. Oggi passa gran parte delle giornate nelle scuole e in manifestazioni pubbliche a raccontare la sua storia, a mantenere viva la memoria di un tempo che sembra passato ma in realtà è vicinissimo.

«Sono nato l’11 settembre del 1927 in un quartiere degradato, via Cento Gradi ai Cristallini, la strada che dai Vergini porta a Capodimonte e all’acquedotto, all’epoca era diviso a sinistra in sezione Stella e a destra San Carlo Arena. Mio padre era un antifascista cilentano. I cilentani antifascisti a Napoli si riunivano presso uno studio dentistico in via Foria di fronte all’Orto Botanico. Era il cosiddetto “dentista comunista” di via Foria, si chiamava Francesco Lanza, “Ciccio Lanza”, di Marina di Camerota».

Amoretti ci tiene a far passare un dato importante: le Quattro Giornate non sono nate per caso, non sono state un evento spontaneo ma organizzato ma dai vari gruppi antifascisti sparsi in tutta la città.

Racconta che durante il fascismo c’era un controllo sociale estremo. Per fare qualsiasi lavoro, anche il più scalcagnato come il portiere, c’era bisogno della licenza della Questura e la licenza se non eri fascista non te la rilasciavano.

Mussolini a Napoli, era il 1922, quattro giorni prima della marcia su Roma, ma si guardò bene dal raggiungere la capitale

In ogni palazzo c’era il capo palazzo, la spia dei fascisti, scelto dai fascisti «tra i più fascisti» per riferire al circolo rionale di quartiere cosa succedeva, le abitudini delle persone, chi non rispettava il regime.

«È importante dire come si viveva prima, il clima di violenza. Racconto sempre un episodio: Rettifilo. Io bambino, mano nella mano di mio padre. Incrociammo un corteo di fascisti: gagliardetti, camicie nere, manganelli, olio di ricino. Uno di questi energumeni si avvicinò a suo papà con il manganello in mano e disse testualmente: «Pecchè nunn’ e’ salutat?». Mio padre aveva il distintivo degli invalidi della Prima guerra mondiale. Disse una bugia: «Io sono invalido, il braccio non funziona». «E saluti con quell’altra mano» disse il fascista. Mio padre rispose: «Lo vedi a questo? Questo ten’ o’ pepe. Se lo lascio nun’ l’acchiappo chiù». Il fascista non ebbe il coraggio di metterlo in discussione e così papà si salvò da una sonora “paliata”».

Nel frattempo i tedeschi abusavano e depredavano dappertutto e in ogni modo: «L’Italia fascista era alleata con la Germania nazista ma la realtà è l’Italia era occupata. Lo dimostrano i fatti. Nella primavera del 1943 ci fu una tragedia. Mi pare fosse marzo, domenica pomeriggio. Nel porto di Napoli c’era la nave Caterina Costa: i serbatoi erano pieni di gasolio, era carica di carri armati, cannoni, esplosivi e munizioni. Era pronta per partire per il Nord Africa. Scoppiò un incendio a bordo. La gestione dell’evento per legge spettava all’autorità portuale italiana che visto il pericolo decise di rimorchiare la nave, portarla a largo e affondarla. I tedeschi che dovevano essere alleati e invece erano già occupanti dissero invece che la nave doveva restare là. Migliaia di napoletani per curiosità si sono accalcati ai cancelli del molo. A un certo punto è scoppiato tutto. Pensate che pezzi di carro armato arrivarono ai Camaldoli. Ricordo che stavo a casa, stavamo giocando a carte c’erano anche i ragazzi del palazzo. Fortunatamente avevamo un ricovero dentro le grotte di tufo con una seconda uscita ai Miracoli, detti anche “Miradois”. I nostri genitori cercavano di non farci uscire così il ricovero era vicino».

Il papà del signor Amoretti era uno dei “ragazzi del ’99”, aveva fatto la Grande guerra. Era un tramviere, dopo la terza elementare c’era una specie di terza media che era la quarta, la quinta e la sesta. «Papà aveva fatto fino alla sesta. Scriveva benissimo, era una persona molto intelligente. Ricordo il 1938, le leggi razziali. Avevo undici anni. Mio padre arriva a casa incavolato, si sfoga con mia madre e dice: «Gli ebrei hanno combattuto con noi la prima guerra mondiale. Allora erano italiani, perché ora non lo sono più?».

Quattro Giornate di Napoli, combattimenti

La sera del 27 settembre 1943 il papà di Antonio Amoretti torna a casa dopo una riunione, si era decisa l’insurrezione: «Domani si spara, e si muore, anche. Papà disse a mamma: Attenta a lui, non farlo uscire, riferendosi a me. Purtroppo quella mattina mio padre ebbe un attacco di malaria. Che faccio? Dissi io. Sapevo dove papà teneva la pistola. Papà non può i’, vac’ io. Presi anche un pugnale con cui mio zio era stato colpito in Germania. Avevo sedici anni compiuti l’11 settembre senza poter festeggiare perché non avevamo nulla, neanche l’acqua. Andai casa per casa a chiamare altri ragazzi. Formai una piccola squadra, eravamo cinque- sei. In un certo senso io ero il punto di riferimento per loro perché ero l’unico studente. Tutti gli altri erano garzoni di barbiere, di falegname, di calzolai, di guantai. Per questo dico sempre ai giovani di considerare il valore dello studio. Io comandavo il gruppo. Ecco perché poi mi seguirono nella rivolta».

Una delle eroiche donne della Quattro Giornate, Maddalena Cerasuolo, con Antonio Amoretti sedicenne

Amoretti partecipa alle barricate di piazza Vergini ma interviene anche negli scontri con i tedeschi al Museo. «C’era un concentramento a piazza Vergini. C’era una barricata. La mia zona era da lì al Museo. Io avevo una borraccia, ci mettevo l’acqua. Mio padre da buon campagnolo aveva fatto una provvista di latte condensato che si allungava con l’acqua. Avevo sempre fame, dissi al comandante se potevo andare a casa a mangiare un po’ di latte. Vado a casa, la finestra di casa mia era a livello del ponte della Sanità. Da lì ho visto i carri armati tigre dei tedeschi. Loro erano stati già cacciati ma c’era questo tentativo di riconquistare la città. Gli storici non hanno capito l’importanza delle Quattro Giornate. Allora scendo e vado ad avvisare il comandante che mi dice: prendi il tuo gruppo e vai a dare una mano. Ecco perché mi sono trovato con Maddalena Cerasuolo. Lì loro avevano messo un tram di traverso ma nonostante questo i tedeschi andarono oltre e arrivarono quasi fino a piazza Plebiscito. Lì sono stati fermati con le barricate e le molotov. L’arma vincente delle Quattro Giornate è stata la bottiglia incendiaria, la molotov secondo me è stata inventata a Napoli. Senza la Resistenza delle donne che contribuirono alle barricate le Quattro Giornate non ci sarebbero mai state». Nella voce di Amoretti c’è ancora un fuoco che arde. Racconta senza sosta come fosse difficile combattere da terra, con armi arrangiate, mentre i fascisti e i nazisti sparavano granate e mortai dall’alto di Capodimonte, dove si erano asserragliati.

Napoli, la chiesa di Santa Chiara in macerie dopo il bombardamento del 4 agosto 1943

Racconta di come un gerarca fascista che «ne aveva combinate di tutti i colori» fu salvato da linciaggio da un fabbro comunista che credeva nella giustizia; come alle Quattro Giornate abbiano partecipato anche degli ex fascisti e gli ebrei: «A casa nostra c’era un cugino di papà comandante della guardia forestale di Pozzuoli, un giovane attendente di via Michelangelo, un padre e un figlio ebreo: mio padre chiese di ospitarli alla signora del piano di sopra perché a casa mia non c’era più posto. Poi il figlio che era mio coetaneo venne con me a combattere». Amoretti racconta dei bombardamenti americani del 4 agosto 1943 e di alcune bombe difettate che, inesplose, scoppiarono poi in un ricovero a piazza Mario Pagano provocando quasi cinquecento morti: «Il bombardamento del 4 agosto 1943 fu un bombardamento terroristico. L’armistizio fu annunciato l’8 settembre. Secondo voi un armistizio si fa dalla sera alla mattina? C’erano tutte le cancellerie che stavano lavorando. Quel bombardamento si poteva evitare. Fu una carneficina. Io ho visto il recupero di questi corpi dilaniati nella scuola Andrea Angiulli, la mia scuola elementare. Quest’operazione è durata giorni e giorni: era agosto, immaginate che fetore. Questa cosa mi ha scioccato».

Orazione del presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ai funerali di Antonio Amoretti

Quando gli chiedo se oggi rifarebbe tutto, Amoretti non esita un secondo: «Lo rifarei mille volte ancora. Non mi sono fermato dopo le Quattro Giornate: ho continuato a lavorare per difendere gli ideali della Resistenza e dell’antifascismo. Per me è come una missione io faccio questo da sempre. Se penso all’oggi sono avvilito. È stato trasmesso un messaggio di paura. È la paura che ha fatto vincere questa destra xenofoba e antidemocratica. Vedo molte analogie con il periodo che ha poi portato alla nascita del fascismo. E soffro. Ma non per me, perché io ormai ho un’età: mi dispiace per i giovani. Racconto un episodio. Quando vado a parlare nelle scuole, spesso faccio vedere il famoso discorso di Calamandrei agli studenti milanesi. Un giorno sono andato in un famoso liceo classico nella zona bene di Napoli: è stata l’unica volta che quel video non è stato applaudito spontaneamente. Rimasi scioccato. Capii subito il perché. Sono tutti ragazzi fortunati, pensano di potere ereditare lo studio, la posizione economica, le proprietà. Gli dissi: voi pensate di essere al sicuro ma non potete sapere quello che accadrà. Anche per voi c’è un futuro oscuro. Ci sono forze che approfittano di questa vostra indifferenza per fare i fatti loro. Il vostro avvenire non è garantito come voi pensate».

Solo i posteri potranno dirci quanto abbiamo bisogno di queste parole, oggi.

Francesca Saturnino, articolo pubblicato nel luglio 2019 sulla rivista mensile L’Espresso Napoletano